“Palmira liberata” titolavano qualche giorno fa i giornali di tutto il mondo. Con un sospiro di sollievo che forse non si sarebbe avvertito identico se al suo posto ci fosse stata una città “viva”. Può stupire che una rovina susciti più compartecipazione di una popolazione martoriata. È uno strano, e inquietante, fenomeno che però mette in luce il significato più autentico del patrimonio culturale. La vicenda di Palmira ha focalizzato l’attenzione di tutto il mondo sulla sua precarietà ma soprattutto sul suo valore ideale prima che economico: il quale, a ben vedere, sotto il manto dell’ideologia è ciò che più preme a Daesh, dato che il traffico di reperti è la terza fonte di proventi del Califfato dopo droga e armi. La sua perdita ci appare ancor più grave forse perché con essa ci sembra scomparire per sempre un pezzo di storia e di memoria, come se attraverso questa collettività, che avvertiamo nostra seppure remota, venissimo colpiti noi stessi.Anche per questo il sacrificio di Khaled Assad, il direttore del sito siriano, ucciso, decapitato e appeso a una colonna, suona come un martirio. La storia è ricca di questi eroi, molti dei quali anonimi e silenziosi, che hanno opposto la civiltà alla barbarie ma anche la cura e la sollecitudine ai disastri naturali come terremoti e alluvioni. Molti sono raccontati nella mostra “Salvare la Memoria (La Bellezza, l’Arte, la Storia). Storie di distruzioni e rinascita” in corso al Museo archeologico nazionale di Mantova (città colpita dal sisma del 2012) fino al 5 giugno e dedicata idealmente proprio a Khaled Assad e Palmira.Una prima strategia di salvaguardia delle opere d’arte risale a un secolo fa, con la Prima guerra mondiale. Era stata la devastazione della cattedrale di Reims nel 1914, cannoneggiata dall’artiglieria tedesca, a far capire che non serviva avere l’esercito alle porte perché le città venissero messe a ferro e fuoco (ma è interessante che il kaiser Guglielmo II nel maggio 1915, dopo lunga riluttanza, acconsentì alla richiesta dei suoi generali di bombardare via aerea Londra, a patto che venissero risparmiati i monumenti). In Italia già nel marzo 1915, prima ancora dell’entrata in guerra, dal Veneto si cominciarono a spedire casse di opere a Firenze, mentre nel 1916 furono movimentati i capolavori di Brera e delle chiese milanesi come l’altare di Sant’Ambrogio. La Valtellina, storico corridoio di ingresso di eserciti in Italia, fu smobilitata e ogni opera (compresi tessuti, paramenti e pizzi) inventariata e documentata fotograficamente, con un approccio che rivela una nuova consapevolezza verso il patrimonio.Trent’anni dopo Milano e tutta la Lombardia sarebbero state al centro di una straordinaria operazione di salvaguardia grazie a figure come Ettore Modigliani, Guglielmo Pacchioni, Fernanda Wittgens, Gian Alberto Dell’Acqua. Le opere furono spedite in diversi depositi e caveau in tutta Italia. Il 26 giugno 1943 i “capolavorissimi”, nell’espressione della Wittgens, di Brera, Poldi Pezzoli e Carrara furono mandati nella fortezza di Sassocorvaro, nelle Marche. Il 7 e l’8 agosto successivi su Milano cadeva una pioggia di bombe.Minore fortuna ebbero le opere degli Uffizi, inviate in Alto Adige dai tedeschi nel 1944. Queste e molte altre furono oggetto delle indagini dei
Monuments men, celebrati anche da un film di George Clooney, trecentocinquanta circa tra uomini e donne da quattordici nazioni, membri della sezione Monumenti, Belle Arti e Archivi dell’esercito angloamericano. Molti erano direttori di musei, storici dell’arte, artisti, architetti. Il loro compito era proteggere i beni culturali dalla guerra e ritrovare le opere razziate di Hitler e dei gerarchi nazisti, i quali avevano progettato nei minimi dettagli – e in parte effettuato – la sistematica depredazione di musei e chiese di tutta Europa per costruire il grande Führermuseum a Linz (ma anche, come Göring, per appenderseli in casa). Molte furono ritrovate nella miniera di sale a Alt Aussée presso Salisburgo. Nel 1951, alla fine delle operazioni, furono cinque milioni le opere, i volumi e gli oggetti restituiti.Il Camposanto monumentale di Pisa, fu incenerito con i suoi affreschi che andavano da Buffalmacco a Antonio Veneziano a Benozzo Gozzoli nel 1944 da una bomba alleata. Sembravano morti per sempre, ma oggi quegli affreschi, a porzioni e lacerti tornano alle pareti. Il Camposanto torna a vivere, sì, ma di una vita diversa: «Si rende di nuovo comprensibile – scrive Antonio Paolucci – nella viva memoria della sua perduta ma non obliata bellezza e delle sue funzioni simboliche». Il concetto di restituzione, contraltare della distruzione, è centrale nella mostra mantovana come segno di ripartenza e di riappropriazione della storia. È così ad esempio per la stele di Axum, tornata in Etiopia nel 2005, ma una “restituzione” di alto valore simbolico è la ricostruzione del ponte di Mostar. Gli archi temporali tra distruzione e ripartenza possono essere lunghi: la residenza dei granduchi di Vilnius venne rasa al suolo nel 1795 con l’annessione della Lituania alla Russia; nel 2000 il parlamento ha varato la legge sulla sua ricostruzione, completata nella sua prima parte nel 2013.Il racconto sugli ultimi 60 anni in Italia si sofferma sulle disgrazie naturali (l’alluvione di Firenze con gli angeli del fango, quindi i terremoti del Friuli, Irpinia, Assisi, l’Aquila fino a quello emiliano) ma anche sugli attentati come quello di via dei Georgofili del 1993. L’opera di salvataggio da guerre e fondamentalismi prosegue in Medio Oriente. Nel 1989, ad esempio, il nucleo più prezioso del Museo nazionale dell’Afghanistan era stato messo al sicuro segretamente in un caveau del palazzo presidenziale di Kabul e solo il coraggio di un custode, che ha mentito alle bande e ai talebani, lo ha salvato. I tesori, ritenuti trafugati, sono stati “ritrovati” al crollo del regime talebano, mentre il museo era stato distrutto e saccheggiato. Nel 1975 allo scoppio della guerra civile, il direttore del Museo nazionale del Libano Museum, Mir Maurice Chehab, per preservare le opere inamovibili le seppellì sotto colate di cemento. Sono ritornate alla luce sane e salve nel 1999.