martedì 13 gennaio 2015
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Negli ultimi tempi la figura del matematico e crittanalista inglese Alan Turing (1912-1954) è tornata alla ribalta per due motivi: uno, la recentissima programmazione del film The Imitation Game, del regista norvegese Morten Tydlum, che narra la tragica parabola di Turing, prima eroe della seconda guerra mondiale per aver forzato il codice Enigma usato nelle comunicazioni dalle potenze dell’Asse e aver quindi agevolato la vittoria degli Alleati, e poi perseguitato per la sua omosessualità fino ad essere sottoposto alla castrazione chimica. A causa di questo trattamento si uccise, mangiando parte di una mela avvelenata al cianuro (non si può non pensare al nome e al simbolo della Apple...).Il secondo motivo della rinnovata popolarità di Turing riguarda un tema più esoterico, l’intelligenza delle macchine. Qualche tempo fa ha suscitato scalpore tra gli specialisti la notizia che il test di Turing per l’intelligenza dei computer sarebbe stato superato da un programma informatico che ha convinto il 33% dei giudici di trovarsi di fronte a un essere umano e non a una macchina. All’entusiasmo dell’organizzatore dell’evento, Kevin Warwick dell’Università di Reading, in Gran Bretagna, hanno fatto da contraltare numerosi critici, che hanno rilevato alcuni punti deboli nell’allestimento del test, del quale peraltro non sono noti tutti i particolari. Per il momento la sensazione è che si tratti di un fallimento, il che smentirebbe la previsione, dello stesso Turing, che entro il 2000 un computer avrebbe superato il test. Ma gli sforzi in questa direzione continuano.È molto difficile individuare un criterio che consenta di distinguere il pensiero da una sua imitazione artificiale. Il punto critico è la definizione di pensiero. In un articolo del 1950, Turing trasformò la domanda se una macchina possa pensare in un problema indiziario basato su una prova di tipo dialogico: se un giudice non riesce a distinguere il comportamento verbale di un computer da quello di un essere umano, che per definizione pensa, allora il computer pensa. Si tratta di un esperimento concettuale, il cosiddetto test di Turing, che prende lo spunto dal “gioco dell’imitazione” (da cui il titolo del film), cui partecipano tre persone: un uomo A, una donna B e un esaminatore C, che è isolato dagli altri due. C può porre ad A e B domande arbitrarie e dalle risposte deve stabilire chi è la donna. A e B si sforzano entrambi di essere identificati nella donna, quindi B cerca di aiutare C e A cerca di ingannarlo, fornendo le risposte che a suo parere darebbe la donna. C può avere a disposizione soltanto le risposte e non altri indizi (l’aspetto, la voce, la grafia…), che renderebbero facile l’identificazione: quindi può comunicare con A e B solo mediante tastiera. Turing immagina di sostituire alla donna un computer, assegnando a C il compito di distinguere l’uomo dalla macchina. Questa versione del gioco consente di affrontare il problema se le macchine possano pensare evitando di definire i termini “macchina” e “pensare”, il cui significato è difficile da precisare. L’utilità di questo esperimento concettuale sta non tanto nella risposta che esso consente di fornire al problema (non è scontato che la fornisca), quanto nella possibilità di analizzare concetti come mente, pensiero, intelligenza.Che significato ha il gioco dell’imitazione? Intanto presuppone che le risposte di una donna siano distinguibili da quelle di un uomo; ma anche che l’uomo sia in grado di simularle. Non si dimentichi tuttavia che il gioco è a tre: l’identificazione di A e B è demandata a un giudice. Se il giudice è in gamba può prendere la decisione corretta nonostante gli sforzi di A per sviarlo. Quindi sorge la domanda: si tratta di stabilire se A è più in gamba di B oppure se C è abbastanza in gamba? Forse il gioco è un test per C: cambiando giudice, ma non A e B, l’esito del gioco potrebbe cambiare. Nella versione originale si tenta di distinguere un uomo da una donna. Questa è la coppia più classica, ma potremmo immaginarne altre: un bianco e un nero, un italiano e un cinese, un poeta e un matematico (tutti di sesso arbitrario)... Così si capisce meglio che C, il quale conosce le categorie cui appartengono A e B, deciderà in base sì alle risposte, ma anche alle sue credenze, ai suoi pregiudizi, alla sua conoscenza del mondo. Quindi, anche se ci si serve di una telescrivente, nelle risposte resta un contenuto che non è solo interno alla lingua, ma è anche legato alla natura di A e di B.Esiste cioè la possibilità che le differenze (biologiche, di esperienza, di ruolo sociale) tra uomo e donna introducano differenze apprezzabili, e non colmabili mediante imitazione, nelle risposte di A e B a certe domande. Ciò indicherebbe che il pensiero non si può mai isolare o astrarre del tutto dal resto dell’essere umano, in particolare dal corpo e dai suoi condizionamenti, quindi dal mondo. Insomma, se le differenze nelle risposte di A e B derivassero dalle differenze tra A e B, un giudice abbastanza bravo darebbe sempre la risposta corretta perché A non potrebbe mai imitare B: per imitare B dovrebbe essere B.Turing ritiene invece che il pensiero si possa separare dal suo supporto. Il corpo non avrebbe nulla a che fare con l’intelligenza. Questo riduzionismo mentale o informazionale di Turing è confermato dal fatto che le attività umane che egli riteneva adatte all’automazione erano quelle che non comportano contatti con il mondo esterno: il gioco degli scacchi, la matematica, la crittografia. Ma gli aspetti corporei erano esclusi. Tuttavia Turing contraddice in parte questa posizione: estendendo l’attività delle macchine intelligenti alla conversazione, anzi facendo della capacità linguistica il segno distintivo del pensiero, stabilisce un contatto tra la macchina e il mondo esterno. Infatti l’esaminatore può porre domande arbitrarie, quindi anche domande sul nostro mondo. Il legame tra parola e mondo, che si manifesta quando la parola cessa di essere puro simbolo sintattico per caricarsi di semantica e alludere alle cose esterne alla lingua, questo legame, per cui la parola crea, modifica e struttura il mondo e ne è condizionata, ora coinvolge anche la macchina.Anche nella variante di Turing, in cui A è una macchina e B un essere umano, non è molto chiaro quale sia il significato del gioco. Si può immaginare che, giocando molte mani, certe volte C sbagli l’attribuzione e altre volte no, cioè che la macchina a volte superi e a volte fallisca la prova. È evidente che, se le domande possono essere arbitrarie, ne basta un numero sufficiente per bocciare la macchina: basta uscire dal suo orizzonte di competenza, ponendo domande sul mondo in grande. Ma ciò vale anche per gli umani! Forse, come per tutti i giochi, bisogna porre dei limiti e delle condizioni. Ammesso allora di stabilire durata e modalità del test, il suo superamento è una condizione sufficiente per l’intelligenza? È una condizione necessaria? O è, semplicemente, un gioco d’intelligenza, un passatempo, al massimo uno spunto di riflessione? L’intelligenza degli umani è a largo spettro, versatile, elusiva e variegata, si esplica e si accresce e si modifica con la comunicazione e più in generale attraverso quell’attività multiforme e inafferrabile che è la vita. Quindi l’intelligenza umana è molto legata al corpo e alla sua immersione nel contesto ambientale ed è un prodotto dell’evoluzione prima biologica e poi culturale. L’intelligenza delle macchine, qualunque ne sia il significato e la portata, è, almeno per il momento, a spettro molto stretto, è finalizzata a compiti particolari e in genere comunica con l’ambiente circostante soltanto attraverso l’esile cordone del programma. Non si estende nell’ambiente mondo né possiede la dimensione diacronica dell’evoluzione.Secondo alcuni il criterio verbale di Turing non è sufficiente per l’attribuzione del pensiero e neppure necessario: un ente potrebbe essere intelligente senza essere in grado di parlare, e in effetti ciò si può dire degli animali superiori (ma che cos’è l’intelligenza?). Il criterio dialogico è molto antropomorfo, tuttavia è abbastanza evidente che certi uomini non supererebbero il test, mentre certe macchine non intelligenti potrebbero superarlo (inducendo in errore almeno un giudice per qualche minuto). Ciò sembra indebolire di molto la portata del criterio. Per concludere, si può forse dire che il test di Turing è un esperimento concettuale il cui valore pratico, quanto all’intelligenza delle macchine, è quasi nullo. Non rappresenta una condizione necessaria e neanche una condizione sufficiente. La sua importanza risiede piuttosto nel tipo di riflessioni che ha provocato sul concetto di intelligenza, ma anche di coscienza, di computazione e via dicendo. Ma, secondo alcuni ricercatori, il futuro dell’intelligenza artificiale può riservarci molte sorprese.
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