«I nostri canti colpiscono chiunque. Perché? Perché sottolineano la cultura di tutti e danno un senso di appartenenza: ai valori della nostra tradizione cristiana, al senso del Divino, dell’infinito. Si figuri dunque se li cantiamo in aperta montagna». A parlare è Mauro Pedrotti, direttore del coro della SAT (Società degli alpinisti tridentini), fondato a Trento nel 1926 da suo padre coi suoi tre fratelli, dando il via a una tradizione: «Sì, e oggi ci sono 180 cori solo nella nostra provincia: ovvero circa seimila persone che si riuniscono per cantare». E molti di costoro daranno vita, domenica alle 11, all’evento di apertura de «I Suoni delle Dolomiti 2010»: undici cori storici in undici rifugi a tenere altrettanti concerti.
Dolomiti d’inCanto è il titolo: l’incanto delle montagne, l’incanto della nostra tradizione corale.
Maestro Pedrotti, questo evento è dedicato alle Dolomiti elette patrimonio dell’umanità da parte dell’Unesco. Ma cos’è la montagna per chi la vive?È silenzio, profondità nei rapporti umani. Cose che il turismo un po’ fa perdere: per fortuna non in occasioni come queste, che permettono di valorizzare con il nostro canto anche le nostre montagne. Voglio sottolineare però che cori come il nostro agiscono oltre i concerti: cantiamo, ma aggreghiamo anche. E facciamo solidarietà»
La montagna è pure luogo per eccellenza della spiritualità. Come entra questo nel vostro cantare?«È sempre presente. Anche quando trattiamo di guerra nei testi ci sono valori come l’accettazione del volere divino. Del resto accompagniamo spesso messe e funzioni, e sempre con canti popolari. Che scegliamo per i valori che comunicano e, quindi, hanno dentro».
Che tradizioni rappresentano gli undici cori scelti?«Siamo tutti parte del grande patrimonio trentino, da cori storici come Sasso Rosso e Valsella ad altri più giovani. Certo, ognuno ha scelte e stili diversi».
Due i brani in tutti i concerti: «Le Dolomiti» e «La Montanara», che verranno intonati a mezzogiorno. «La Montanara non si può tralasciare, non è un canto popolare perché ha un autore, Toni Ortelli, ma la facciamo anche noi che di solito cantiamo solo brani popolari in senso stretto: perché ormai è come se lo fosse. Quasi un inno».
Le scelte di repertorio del Coro SAT quali sono?«Tutto nacque da mio padre e dai miei zii. Da bambini impararono i canti della gente, profughi in Boemia impararono brani della zona, a militare assorbirono da altri alpini canti veneti, piemontesi, lombardi. E mio zio Silvio andava nelle valli col registratore, cinquant’anni fa, ad incidere le voci dei vecchi».
Con poi un Benedetti Michelangeli ad armonizzare…«Eh, il grande pianista fu tra chi capì la forza di un coro maschile. Ci ha armonizzato 19 brani:
Che fai bella pastora, La bella e il mulino, La figlia di Eulalia… Noi abbiamo sempre rispettato la sua privacy, e lui a noi non si è mai negato».
Ma oggi i giovani vi seguono? E poi voi cantate dagli Usa alla Corea: l’Italia vi apprezza abbastanza?«I giovani oggi non hanno solo il coro per passare il tempo, va detto. Ma se ci conoscono si entusiasmano. E dovunque andiamo c’è gente che si commuove, forse ha anche bisogno della spiritualità dei nostri canti. È chiaro che per essere conosciuti di più occorrerebbe altro. La tv, per esempio. Ma saremmo noi stessi, in tv? No. Noi testimoniamo un’arte di nicchia concerto per concerto, ed è giusto così».
In pratica, lei è nel Coro della Sat da sempre. Cosa le ha insegnato, stare in un coro?«È come avere una seconda famiglia. Una famiglia che con i suoi valori fa dimenticare ogni sacrificio».