Il "Macbeth" di Verdi al Teatro Massimo di Palermo
Chi fossero i re taumaturghi lo spiegò Marc Bloch in un libro del 1924, presto annoverato fra i classici della storiografia novecentesca. Originaria della Francia, la credenza che il tocco del sovrano potesse, sia pure per il tramite di un oggetto da lui sfiorato, guarire dalla scrofola e da altri malanni si era poi diffusa in Inghilterra. Gode di questa prerogativa anche Edoardo il Confessore, che nel Macbeth shakespeariano svolge un ruolo tanto defilato quanto decisivo. Bene, ma chi sono, invece, i re traumaturghi? Il felice neologismo si trova in Il caso Macbeth di Giuseppe Testa (il melangolo, pagine 208, euro 10,00) un saggio ricchissimo di informazioni e di spunti, nel quale critica letteraria, ricerca storica e ipotesi interpretative risultano continuamente intrecciate. Nella sua brevità, infatti, il “dramma scozzese” di Shakespeare nasconde una straordinaria complessità di riferimenti. Allude a un’età barbarica e remota, eppure è pensato in chiave contemporanea, come legittimazione di re Giacomo I Stuart, figlio della decollata Maria di Scozia e successore di Elisabetta la Grande. Un’impresa non del tutto semplice sul piano politico e simbolico, resa però urgente dal precipitare degli eventi. Il 5 novembre del 1605 re Giacomo era scampato alla cosiddetta Congiura delle polveri, complotto di parte cattolica alla quale era seguita una repressione di cui avevano fatto le spese, in particolare, i gesuiti ancora presenti in Inghilterra. Macbeth andò in scena pochi mesi più tardi, nel 1606, e non è difficile riconoscere nella trama più di un accenno al mancato regicidio. Il punto, avverte Testa, sta proprio qui. Nelle prime versioni della vicenda (peraltro storicamente accertata) di Macbeth, l’uccisione del rivale Duncan non è gravata da alcuna condanna morale. E questo perché all’interno del clan l’appropriazione della regalità avveniva solitamente attraverso il trauma dell’assassinio: da qui, appunto, la definizione di “re traumaturghi” attribuita ai sovrani di questo ordinamento. La stessa conclusione del dramma, con l’eliminazione di Macbeth da parte del vendicatore Malcolm, non è estranea a questa logica, che però non può essere estesa al presente, perché altrimenti finirebbe per giustificare ulteriori tentativi di deporre con la forza il sovrano regnante. La legittimità va istituita su un piano diverso, quello di una continuità familiare all’interno della quale – come dimostra proprio il caso di Giacomo I – non mancano le apparenti contraddizioni. Letto in questa chiave, Macbeth è espressione di un cambio di paradigma che trova il suo emblema in un personaggio appena accennato nel dramma: Lulach, il figlio della spietata Lady Macbeth, significativamente ridotto a una sorta di fantasma sul crinale che separa la consuetudine del regicidio dall’affermazione del sistema dinastico. La riflessione di Testa si concentra sull’originale di Shakespeare nei suoi rapporti con la cultura dell’epoca (centrale la figura dell’umanista scozzese George Buchanan) e nelle sue trasposizioni cinematografiche, senza chiamare in causa la trascrizione operistica di Verdi. Nella quale, del resto, la consapevolezza delle premesse ancestrali tende ad allontanarsi, sostituita da un più riconoscibile sentimento religioso.