sabato 6 luglio 2024
Torna, a cura di Giovanni Scarafile e in una nuova traduzione, un saggio del 1951, dove il pensatore francese critica l'atteggiamento espresso da Camus nel romanzo "La nausea", giudicato «ingenuo»
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C’era un tempo, non così lontano, in cui la nausea dinanzi al mondo andava di moda, soprattutto Oltralpe. E il Belpaese non era da meno. Alla nausea, come recita il titolo di un celebre romanzo pubblicato nel 1938, era frutto dell’esperienza di una realtà senza senso in preda all’assurdo e alla contingenza. Sartre e Camus ne erano, forse, i più noti ma non unici vessilliferi. Che fosse in voga una simile Stimmung e che tanta influenza abbia avuto a cavaliere della metà del secolo scorso non equivale, naturalmente, a riconoscerne la verità. A osteggiarla si alzarono diverse voci, una, però, più determinata delle altre. Lo confermano le parole e argomentazioni che intarsiano, tra gli altri, un testo del 1951, pubblicato da Morcelliana, Il filosofo di fronte al mondo d’oggi, ((pagine 74, euro 10,00) riproposto ora in una nuova traduzione con la curatela di Giovanni Scarafile che lo presenterà domani su Tv2000 nello speciale Il diario di papa Francesco dedicato alle Settimane sociali di Trieste (ore 8-12).

«L’argomento di Camus – precisa l’autore - riguarda l’assurdità del mondo nella sua interezza, e non meramente quella relativa alla nostra dimensione storica, che potrebbe intuitivamente essere attribuita alle azioni umane. Per una coscienza come quella di Camus le ingiustizie inesplicabili impediscono a un ragionamento onesto di accettare che il mondo sia frutto di un disegno divino, più semplicemente che possa essere compreso nel vero senso della parola. Si potrebbe inoltre affermare che alla luce di questa prospettiva, gli orrori cui abbiamo assistito derivino da un substrato irrazionale dell’esistenza. Si deve sottolineare che tale atteggiamento è anche estremamente ingenuo, rappresentativo di chi non ha raggiunto quella che ho spesso definito come riflessione di secondo livello», la sola a consentire, una volta assunta l’esistenza nella sua concretezza e non alla luce di una razionalità astratta, di raggiungerne l’essenza. A vergare le precedenti parole fu un autore, Gabriel Marcel (1889-19173), che oggi fatica a ritagliarsi uno spazio, ancorché angusto, nel novero dei pensatori da studiare per fare fronte a un mondo in continua trasformazione, il nostro, non così lontano da quello evocato negli anni Cinquanta del Novecento. Se oggi riesce difficile recuperare i lavori del pensatore francese, soprattutto i maggiori, non si può dire lo stesso del passato. Marcel, nel secolo scorso, ha goduto, non solo in Francia, di spazi editoriali e fama non marginali malgrado le sue critiche, che oggi scandalizzerebbero, alla decolonizzazione, basata «su principi generali astratti» senza «tenere conto dei potenziali benefici della colonizzazione per i popoli colonizzati», e la condanna delle «purghe del dopoguerra», entrambe ritenute espressione di «fanatismo».

Gran viaggiatore, conoscitore della maggior parte dei paesi d’Europa, di Stati Uniti, Canada, America Latina, Medio Oriente e Giappone, Marcel fu un abile e appassionato conferenziere, così ricercato da essere invitato a tenere le Gifford Lectures di Aberdeen, poi pubblicate con il titolo Il mistero dell’essere (libro che meriterebbe di essere reso nuovamente disponibile per il lettore italiano), o le altrettanto celebri William James Lectures, da cui è scaturito il testo La dignità umana. La sua attività, però, non si riduce alla filosofia. Se essa ha rappresentato il cuore dei suoi interessi, Marcel si dedicò pure al teatro, scrivendo una ventina di pièce, e alla critica, trovando ospitalità su riviste del calibro della Nouvelle Revue Française. E non mancò nemmeno di occuparsi di musica, seppure a livello amatoriale in qualità di pianista. Dalla sua conversione al cattolicesimo, avvenuta nel 1929, venne considerato un rappresentante del cosiddetto esistenzialismo cristiano, almeno così piaceva classificarlo a Jean Wahl, quantunque Marcel preferisse l’espressione di neo-socratismo. Di certo il suo pensiero si colloca altrettanto lontano dall’esistenzialismo tedesco di Heidegger, a cui riconosce il merito di aver individuato il linguaggio come casa dell’essere rimproverandogli però «la tendenza a manipolare il linguaggio e a creare termini che difficilmente entreranno nell’uso comune, rischiando di svilirne quel valore sacrale» quanto dall’«esistenzialismo riduttivo che tenti di declassare l’essenza attribuendole un valore meramente secondario» à la Jean-Paul Sartre. Esigente e rigoroso nel suo procedere, il pensiero di Marcel rifugge da ogni astrattezza e al contrario trae insegnamenti dalla concretezza in cui si incarna la vita.

Contro gli idealismi e i sistemi, egli edifica una filosofia concreta, che parta dall’esistenza e sia una riflessione sul vissuto. La concretezza pur essendo aderenza al mondo e valutando la presenza di tutte le cose a sé, non si rinchiude in esso. Il filosofare parte dal vissuto e ne prende la distanza necessaria a conseguire la «riflessione di secondo livello». Il filosofo, scrive, «è allo stesso tempo immerso nel mondo e distaccato da esso» e a lui spetta il compito di abitare quello che Marcel definisce il «super-individuale», vale a dire lo spazio che si apre nel momento in cui l’uomo riconosce la propria finitezza ma coglie il legame, che eccede la semplice relazione, che lo unisce agli altri e a Dio. Rifiutando ogni ottimismo storico, mero simulacro «di un’idea originariamente mistica, quale quella del pleroma o della parusia», frutto dello spirito di astrazione, al filosofo tocca il compito di dissolvere la confusione che nasce da un uso ingenuo del pensiero che si ferma a una riflessione di primo livello. «Spetta al filosofo, e forse solo a lui, – precisa Marcel – affrontare questo stato di confusione, con umiltà e senza illudersi, consapevole che questo compito è un dovere ineludibile da cui non si può sottrarre senza tradire la propria missione». Ma questo lo può fare solo se si fa carico della decisione tra l’essere e il non essere, conscio che oggi anche quest’ultima è diventata un’opzione plausibile, nel momento in cui tecnocrazia «rischia di prevalere in modo vistoso e tirannico». Allora sotto l’incubo del nucleare, oggi di altri sviluppi.

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