L’apertura dell’Apogeo del Museo Egizio di Torino, avvenuta giovedì, ha un particolare significato. Di costume, di cultura, ma anche un ulteriore quanto evidente senso più profondo. Partiamo dai fatti: il Museo Egizio di Torino, il secondo per importanza nel mondo, oggetto da tempo di ristrutturazioni e nuovi allestimenti, inaugura un nuovo spazio, l’Apogeo, mille metri quadri nel Collegio dei Nobili. Vi sono esposti i mille reperti più importanti della collezione, famosa nel mondo, in una mostra temporanea dal titolo inequivocabile, «Immortali». L’evento è una sorta di anticipazione del Grande Museo Egizio, che vedrà la luce all’inizio del 2015. Il piano sotterraneo consente ai visitatori (500mila ogni anno), di poter usufruire delle meraviglie della civiltà egizia, sarcofagi, statue, papiri, durante i lavori di ristrutturazione della sede: tra due anni la civiltà del Sole e dell’eterno avrà il suo grande Museo, ma nel frattempo quei simboli non possono essere negati al viaggiatore, all’uomo che vive nel presente. Il Museo è nel cuore di Torino, una delle grandi città italiane, da cui partì il Risorgimento. La realtà contemporanea, il passato recente, la storia, aprono le loro stanze all’accesso del Mito, della civiltà atemporale delle mummie e del faraone che si illumina di eternità nel Sole, proiettando questa luce di immortalità sul mondo. Un esempio in controtendenza, nel nostro Paese, dove il più importante patrimonio artistico del mondo è lasciato deperire vergognosamente: su tutti il caso di Pompei, punta di un iceberg. Più volte e da tempo
Avvenire interviene in materia, sottolineando come l’abbandono di Pompei non è solo prova di inciviltà, ignavia ma qualcosa di ancora più grave: svuotamento della memoria, disprezzo dell’anima. E sintomo di una corruzione profonda dell’essere. Come sempre, la questione civile è conseguenza di una questione morale, o meglio, ne è inscindibile. Così, secondo lo stesso ragionare e sentire, l’esempio di Torino è una ventata di civiltà, senso della memoria, un soffio d’anima. In un momento sempre molto difficile ma non disperato del Paese, una notizia tonificante oltre la sua stessa positività: un’iniezione di vitalità. In un palazzo del Seicento, in una grande città italiana, Torino, un nuovo spazio alle testimonianze di una civiltà leggendaria. Non qualunque: quella civiltà, l’Egitto, è una delle più grandi esploratrici dell’anima e della prospettiva ultraterrena di vita. Un segnale positivo, memoria e trascendenza. Contro l’apatia e il disfacimento. E quello che anticipavo come il significato ancora più profondo: l’antico Egitto da sempre, dai tempi del viaggiatore greco Erodoto, non è solo una civiltà storica, ma una dimensione del mito. Il modo di raffrontarsi con il sole e la luna, la luce e il buio, muove quegli uomini a elaborare una religione e una mitologia pregne di senso metafisico, segnato da una costante enigmaticità. Enigmatici quanto esemplari i simboli di quella civiltà: la piramide, figurazione concreta di intuizioni geometriche della mente, la sfinge, figura della fusione tra forze naturali ed energie umane, il sarcofago, simbolo di promessa di durata ultraterrena. Questo mondo così leggendario da ispirare infinita letteratura e cinema, di buona e cattiva qualità, è divenuto subito una sorta di archetipo, dove silenzio e buio dialogano segretamente con la luce e il sole generante. In piena crisi economica, nel centro movimentato di una città vitale e sempre energica, ecco aprirsi nuove stanze al mito, all’archetipo, all’enigma: l’uomo moderno ha bisogno di bellezza e mistero. Le istituzioni, le fondazioni, gli sponsor, si dedicano a preservare e mostrare simboli di bellezza e mistero. In un momento di difficoltà e crisi, una simile iniziativa denota fiducia nell’uomo, nella sua memoria e stupore, e simultaneamente capacità di pensare in grande, di rispondere all’angoscia del presente con la memoria delle civiltà senza tempo.