domenica 4 luglio 2010
Oggi gli immigrati non sono più meridionali al Nord, ma stranieri in tutta la Penisola. Questo è l'unico dettaglio che distingue il panorama attuale da quello descritto da Tobagi nel 1980, in calce a un romanzo di Giuseppe Bonura.
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Nel 1951, tredici milioni di persone avevano residenza nei capoluoghi di provincia, nel 1961 erano diventati sedici milioni. In percentuale, l’aumento era stato dal ventotto al trentadue per cento. Già questa considerazione, di per sé, giustifica il fenomeno patologico di Agrigento, l’esplosione di una «fame di case» che diventava tanto maggiore, quanto più frenetico diventava il trasferimento di milioni di cittadini dalla campagna alla città. In genere, si considera questo fenomeno, in modo semplicistico, come un trasferimento di abitanti dal Sud al Nord. Senza dubbio alcuno, questo è il fenomeno più vistoso e caratteristico del decollo industriale italiano; ma non va sottovalutato che un profondo rimescolamento è avvenuto all’interno di ogni singola regione, con l’addensarsi della popolazione nelle città-capoluogo: anche nelle zone più arretrate e più povere, il trasferimento in città ha rappresentato un passo avanti nella scala sociale: dal lavoro dei campi si è passati a un impiego nel cosiddetto "settore terziario", il settore dei servizi, dei piccoli e grandi commerci; il settore, per tanti centri del Sud, di migliaia di persone costrette a vivere alla giornata, talvolta di espediente, spesso ai margini di quella burocrazia statale, parastatale e comunale, che è la prima fonte di ricchezza per alcune zone del Sud. La "fame di case", nel Sud, è nata da questa prima esigenza, sotto la spinta inevitabile di migliaia di persone che premevano per avere una casa, e magari finivano per accontentarsi di abitazioni vecchie e malmesse; ma gli abitanti di quelle abitazioni malmesse cercavano una sistemazione migliore, disponevano dei mezzi per affittare o comperare una casa più grande. Se questo è il meccanismo che ha messo in moto il fenomeno del boom edilizio, non vanno dimenticati gli aspetti speculativi che si sono immediatamente inseriti nella nuova situazione. L’aumento del prezzo delle aree, dei servizi accresceva le possibilità di finanziare – attraverso la costruzione di abitazioni – anche altre attività. Di più: la cronica penuria di case popolari, dignitose e a basso prezzo, costringeva tutti, anche i meno abbienti, a sottostare alle leggi drastiche di un mercato che, di anno in anno, gonfiava i prezzi. La condizione dei nuovi immigrati è difficile, spesso angosciosa. Si trovano in un ambiente assolutamente sconosciuto, ad affrontare un tipo di fatica mai sperimentato. E l’inserimento è reso ancor più laborioso dalla difficoltà di trovare una sistemazione, un alloggio decente; e, in molti casi, dalla conseguente necessità di restare a vivere da soli, nella nuova e sconosciuta città, lontani anche dalla famiglia, dalla moglie, dai figli. All’origine di questo "dramma" è proprio la carenza di abitazioni. Respinti dai centri delle città, i nuovi arrivati si riversano nell’immediata periferia. Così, nel giro di dieci anni, comuni come Cologno Monzese, Cinisello Balsamo, Bresso, Limbiate – tanto per citare alcuni centri della periferia di Milano – raddoppiano, triplicano, moltiplicano per dieci il numero degli abitanti. Una catena di immigrati arriva a ondate successive, il primo porta il secondo, il secondo porta un terzo, e così via. In quali condizioni sia avvenuta questa rapida trasmigrazione dal Sud al Nord, con quali prezzi e sacrifici umani, può essere chiaramente indicato dalle testimonianze sincere dei protagonisti stessi. Goffredo Fofi, nel saggio Immigrazione meridionale a Torino, ha raccolto, tra le altre, questa testimonianza: «Sono arrivato a Torino nel marzo del 1954 che avevo cinquemila lire in tasca. Ho dormito la prima notte da un conoscente del paese mio, poi sono andato in una locanda di via San Donato dove sono capitato per caso, cercando lavoro, e dove pagavo trecento lire per notte. Sono stato lì un po’ di giorni poi ho finito i soldi e andavo a dormire alle panchine della stazione. Dopo quindici giorni mi ero ridotto con trenta lire in tasca e lavoro ancora niente, non ne trovavo. Pensavo di chiedere un prestito a quel paesano per fare il viaggio di ritorno. Non mi sono osato. Però questo conoscente mi ha chiesto se mi ero sistemato, ho detto di no e quello mi ha indirizzato a un’impresa che faceva i lavori alla stazione. Allora sono andato e mi hanno preso. I primi tre giorni non mi hanno dato niente e non ho mangiato niente. Poi ho trovato una stanza in una famiglia meridionale: volevano cinquemila lire d’anticipo. La moglie non voleva tenermi, ma il marito lavorava nella mia impresa e mi ha tenuto. Dormivamo in tre in una stanza. Dopo un po’ ho fatto venire mio figlio; la padrona non ha voluto che mettessi una coperta in terra per sistemarlo e così gli ho lasciato il letto e sono andato di nuovo alla stazione. Poi ho trovato un’impresa migliore». In breve: nel volgere di pochi anni si è sviluppata, ai margini dei tradizionali centri urbani, una periferia dall’apparenza inumana: giganteschi casermoni, appartamenti piccoli e insufficienti rispetto alle esigenze delle famiglie; una domanda di case, tutto sommato, superiore all’offerta. Sicché la speculazione edilizia ha potuto fruttificare tranquillamente, con rapporti e guadagni diversi, ma con un unico metodo, dai quartieri più centrali a quelli più periferici: ovunque si è costruito, spesso approfittando della carenza dei piani regolatori. Così, alla metà degli anni Sessanta, quando si è cominciato a parlare di piani regolatori e di programmazione urbanistica, il delitto era già stato consumato: le aree migliori già occupate, si accendeva una nuova, incessante corsa a coprire tutti gli angoli edificabili e, in molti casi, anche quelle zone che sarebbero dovute restare verdi.È diventato di moda, a quel punto, cominciare a dissertare sulla difesa del verde; paragonare gli imponenti parchi di Londra e di Colonia alle aiuole malmesse di Milano. In realtà, si tentava di chiudere la porta quando i buoi erano scappati da un pezzo. La grande ondata migratoria si era attenuata; ma le mutate condizioni economiche di molti immigrati, che all’inizio s’erano accontentati di una sistemazione qualsiasi pur di avere un tetto, facevano emergere una maggiore richiesta di case un po’ meno piccole, più dignitose. Insomma: si è ripetuto, e si sta ripetendo, un fenomeno tipico di tutte le società nei periodi di maggiore sviluppo industriale e di forte migrazione interna: gli ultimi arrivati ereditano il posto degli immigrati giunti cinque anni prima, che si sono già fatta una "posizione", e così via, in una lenta scalata sociale. La casa è un simbolo della condizione sociale: la via, il quartiere, la città o la periferia sono altrettante etichette appiccicate con un mastice indelebile. Ed è, anche questo, un elemento che ha favorito e favorisce la speculazione edilizia, insieme con l’incessante aumento dei costi, collegato immediatamente agli altissimi, quasi incredibili livelli raggiunti dai prezzi delle aree fabbricabili. Dieci anni fa, il regista Francesco Rosi presentò alla mostra cinematografia di Venezia Le mani sulla città. Era un film-verità, dedicato alla drammatica realtà di Napoli, lottizzata e massacrata – con una tecnica che ricorda certi squallori di Agrigento senza alcun rispetto per la natura, per il paesaggio, per le obiettive condizioni idro-geologiche del terreno. «Le mani sulla città – commentò Giovanni Grazzini sul "Corriere della Sera" del 6 settembre 1963 – è un film sugli speculatori edilizi, a Napoli, oggi, e sulle collusioni tra l’industria e la politica (con un graffio, sul finire, alla Chiesa). L’opera è riuscita perché, in un argomento che ottiene quotidiane conferme, le due spinte che muovono Rosi hanno coinciso: la descrizione di quei soprusi ci interessa... perché vi si specchia una gran macchia della vita pubblica italiana contemporanea». E sulla "Gazzetta del Mezzogiorno" Piero Virgintino trasse questa amara considerazione: «Uno dei fenomeni più accentuati da qualche anno a questa parte in Italia, nelle città di provincia, ma con maggior virulenza nelle grandi città, è stato il cosiddetto "boom edilizio". Ma è ovvio che la semplice costruzione di palazzi significa ben poca cosa, o addirittura nulla, se a un certo punto non la si mette in strettissima correlazione con la speculazione edilizia. Non basta: perché quando la speculazione privata, approfittando di particolari situazioni (mancanza o insufficienza di piani regolatori, violazione dei regolamenti specifici, abusi tollerati, prevaricazioni, corruzioni, complicità politiche), giunge a operare addirittura sotto la protezione della legge, allora la faccenda si trasferisce sul piano del pubblico interesse, con tutto il peso che esso ha o dovrebbe avere, se non fosse continuamente calpestato proprio dagli indisturbati speculatori». Riletti a dieci anni di distanza, quei giudizi suscitano un’amara meraviglia: in questo periodo non si è cambiata la situazione. Napoli, la città che Rosi aveva posto sotto l’obiettivo della sua macchina da presa, è rimasta un esempio di speculazione e deturpazione: soprattutto fino a quando nella città, e negli altri centri della costiera campana, è rimasto determinante il peso politico dei monarchici, guidati nella zona dall’incontrastato dominio di Lauro. La cronaca degli ultimi anni, poi, s’è incaricata di rendere ancora più vistose e drammatiche le conseguenze di tanta imprevidenza: basta un’ora di pioggia per aprire voragini nelle strade, per mettere in pericolo l’incolumità di decine, centinaia di persone. Al di là delle situazioni particolari, che variano da città a città, vi è tuttavia un dato di fondo, nazionale che ha favorito lo sviluppo della speculazione edilizia: la mancanza di un’effettiva politica per la costruzione delle case popolari. Nel contempo, mentre la speculazione ha celebrato le sue radiose giornate nelle maggiori città (si pensi a Palermo dove una nuova generazione mafiosa ha prosperato con l’edilizia), si è iniziato un nuovo, irreversibile processo: l’aumento dei redditi ha reso possibile, per numerose famiglie della media borghesia, pensare a una seconda casa, a una casa di campagna, da usare nei weekend, nei "ponti" e nelle ferie estive. È cominciata la corsa alla seconda casa, soprattutto nei posti di villeggiatura marini. Il primo assalto l’ha subito la Riviera Ligure, ma il boom si è ben presto esteso a tutte le altre zone di possibile villeggiatura. I costruttori hanno impiegato gli stessi metodi adottati in città: un mare di condomini, appartamenti piccoli, con costi elevatissimi: fino a quattrocento-cinquecentomila lire al metro quadro. E gli esausti abitanti delle città sono accorsi puntualmente al richiamo di questa nuova lottizzazione, che ha deturpato brutalmente gran parte della costiera italiana. A poco a poco, accanto alla drammatica realtà delle metropoli, dai quartieri centrali intasati dal traffico e dal gas fino ai rioni di periferia dominati da squallidi casermoni; a poco a poco, si è venuta costruendo un’altra, analoga situazione nei posti di villeggiatura. Le bellezze naturali sono state violate. E gli uomini fuggiti dalla città per evitare il caos della concentrazione, della grande folla, degli ingorghi, hanno finito per trovarsi a vivere in quelle stesse condizioni anche nei posti di vacanza.Di fronte a queste allucinanti, e quasi incredibili, realtà, viene spontaneo domandarsi: com’è potuto avvenire? Quale molla ha spinto verso questa ossessionante speculazione edilizia? Le risposte vanno cercate, ancora una volta, nel processo di sviluppo economico, che ha accresciuto le possibilità di spesa di numerose famiglie; e molte di queste famiglie si sono lanciate nella corsa alla casa al mare, come in una sfrenata galoppata verso il Far West, vuoi per aumentare la propria "posizione", il proprio "prestigio sociale", vuoi per investire il denaro risparmiato, che perdeva continuamente potere d’acquisto sotto i colpi di un’inflazione galoppante, di un aumento dei prezzi sfuggente a qualsiasi controllo. Sono considerazioni valide; ma non si possono trascurare, di fronte a tutto ciò, le gravi responsabilità di chi avrebbe dovuto salvaguardare il patrimonio naturale della penisola e, invece, s’è lasciato invischiare nella rete della speculazione, delle percentuali, dei facili guadagni. La responsabilità ricade, in primo luogo, sui dirigenti politici, dai ministri agli assessori comunali; ma ricade anche su quello sterminato esercito di tecnici – dagli architetti e dagli ingegneri più affermati fino ai più modesti geometri – che hanno contribuito in modo decisivo al boom edilizio e alla deturpazione del paesaggio. La realtà drammatica, e incontrovertibile, è che l’edilizia ha rappresentato, negli ultimi venti anni, una fonte di facili arricchimenti, uno strumento comodo per finanziare attività di ogni genere. La meccanica del profitto incontrollato ha dato il via, ha scatenato una corsa folle, che ha prodotto effetti negativi di ogni genere: dai prezzi elevatissimi alle stressanti condizioni di vita. Al fondo, è lo stesso meccanismo che, da Palermo a Milano, ha imposto uno scriteriato processo di sviluppo "spontaneo". E ora è difficile risalire la china, ripristinare un equilibrio naturale drasticamente violato.
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