lunedì 18 novembre 2013
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I colori caldi dell’autunno avvolgono in un abbraccio rassicurante il monastero di Tibhirine, dopo un’estate particolarmente lunga e secca che ha ricoperto di pennellate d’ocra l’intera valle. È una stagione di passaggio, questa, per il monastero algerino, segnato dal rapimento e dall’uccisione di sette monaci trappisti tra marzo e maggio del 1996. E non solo da un punto di vista meteorologico. Gli effetti benefici del film Uomini di Dio, che ha risvegliato l’interesse e moltiplicato le visite, sono stati rinvigoriti negli ultimi tempi da iniziative di singoli e gruppi che, sulle orme dei monaci, hanno ritrovato la strada dell’Atlante algerino, verso un monastero che vive di vita nuova. Senza monaci, certo, ma con lo stesso spirito di accoglienza e apertura. È soprattutto grazie alla presenza di padre Jean-Marie Lassausse che questo monastero continua a rappresentare un punto di riferimento per la Chiesa d’Algeria e per quella universale, per la popolazione del posto e per i pellegrini di tutto il mondo. Da quasi tredici anni, questo sacerdote della Missione de France, con alle spalle esperienze di missione in Tanzania ed Egitto, garantisce con ostinazione e ottimismo una presenza che ha incontrato più di una difficoltà e non pochi ostacoli. La situazione politica algerina non aiuta. E la recrudescenza del terrorismo islamista, che è arrivato a colpire di nuovo il Paese, lo scorso gennaio, nel campo petrolifero di In Amenas, ha imposto nuove e più severe regole di sicurezza. Eppure il monastero non è mai stato vivo come in questi ultimi mesi. E non è mai stato così al centro dell’attenzione mediatica come in queste ultime settimane. In una sorta di gioco di specchi tra Algeria e Francia, quel che avviene su una sponda del Mediterraneo continua a riverberarsi anche dall’altra parte, tra insperate aperture e vecchie ruggini. E così, a ridosso dell’incontro tra il presidente François Hollande con i familiari dei monaci uccisi lo scorso 30 ottobre, arrivava a Tibhirine la visita non annunciata di un giudice istruttore algerino, accompagnato dal procuratore della Repubblica e da un alto funzionario della polizia scientifica, con tanto di poliziotti, agenti di sicurezza e polizia a cavallo al seguito. Questo, per preparare un’altra attesissima visita, quella del giudice francese Marc Trévidic, prevista alla fine di novembre. Una visita per la quale il giudice istruttore ha dovuto aspettare il semaforo verde di Algeri per oltre due anni… «È un evento molto importante – commenta padre Jean-Marie, che dopo un lungo periodo di "pendolarismo" tra Algeri e Tibhirine, per ragioni di sicurezza, ora risiede stabilmente nel monastero –, ma la cosa principale è che questo luogo continui a essere vivo, a respirare lo spirito dei monaci, consolidando innanzitutto le relazioni di prossimità con la gente del posto, grazie soprattutto a una presenza costante». Questa presenza si è arricchita, ultimante, dell’arrivo di alcuni volontari, per periodi più o meno lunghi, laici o sacerdoti, che cercano un luogo di preghiera e meditazione, rendendosi al contempo utili, soprattutto per il restauro degli edifici, i lavori agricoli e l’accoglienza. E poi, soprattutto quest’estate, è aumentato notevolmente il numero di visitatori e pellegrini. «La maggior parte – precisa padre Jean-Marie – sono algerini, molti dei quali tornano a rendere omaggio a frère Luc, il medico che per cinquant’anni ha curato la gente della regione. Ma ci sono sempre più stranieri, soprattutto francesi. Oggi possiamo parlare di migliaia di persone che hanno avuto il coraggio di superare le difficoltà, che vengono talvolta poste dalle autorità algerine per intraprendere il cammino della montagna, che porta a questo monastero. I visitatori vi ritrovano il mistero di una presenza cristiana in una terra quasi esclusivamente musulmana e lo spirito di fraternità e di fedeltà lasciatoci in eredità dai monaci». Poi, però, c’è anche l’attività agricola e padre Jean-Marie, che è pure agronomo, ne è particolarmente orgoglioso. Per molti anni, è stata l’unica attività possibile al monastero e ora si è molto sviluppata. Ancora oggi il prete francese lavora insieme ai due operai che erano alle dipendenze dei monaci, Yussef e Samir. Un segno di continuità importante… Sedici ettari di terreno, 2400 alberi, 20 tonnellate di frutta raccolta, venduta o trasformata in ottime marmellate. «Quest’anno è stata una vera baraka! – dice soddisfatto – Una benedizione!». E non solo perché un buon raccolto garantisce la sopravvivenza economica del monastero, ma anche perché i lavori agricoli implicano necessariamente una serie di relazioni con il villaggio e i dintorni e contribuiscono a consolidare il senso di appartenenza a questa terra per il quale i monaci trappisti hanno consacrato le loro esistenze. «Vorrei che questo monastero si aprisse sempre di più alla società civile algerina e che possa vivere nella trasparenza agli occhi delle autorità locali, affinché sia riconosciuto da tutti come luogo discreto ma fondamentale della testimonianza dei monaci, che hanno dato la loro vita nella fedeltà a Dio, a questo popolo e a questa terra».
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