Era ben consapevole di «tutto ciò che si può commettere, un po’ ovunque, o dire o credere in nome di un islam duro e incontestabilmente offensivo». Eppure, sosteneva, «dico semplicemente che quello non è l’islam di Dio». Scriveva così, già molti anni fa,
frère Christian de Chergé, priore del monastero di Thibirine, ucciso in Algeria, insieme ad altri sei monaci, nel maggio del 1996. Parole di straordinaria attualità, come molte di quelle raccolte in un nuovo libro che getta ulteriore luce sull’itinerario spirituale di Christian e che mostra una volta di più l’attualità della sua esperienza e della sua riflessione. Il volume,
Lettres à un ami fraternel ('Lettere a un amico fraterno', Edizioni Bayard), raccoglie il carteggio tra il monaco trappista e un altro grande protagonista del dialogo islamo-cristiano, padre Maurice Borrmans, dei missionari d’Africa (Padri Bianchi), docente emerito del Pontificio Istituto di studi arabi e islamistica di Roma. Pubblicato in Francia lo scorso 15 gennaio, all’indomani delle stragi di Parigi, contiene «una testimonianza che deve essere ascoltata», fa notare nella prefazione padre Borrmans, in un’epoca in cui «gli islamofobi fanno concorrenza ai cristianofobi». Lucido e per nulla ingenuo, frère Christian traccia anche in questa corrispondenza fedele nel tempo - 74 lettere (una la pubblichiamo in fondo all'articolo) che vanno dal 1974 al Natale nel 1995, pochi mesi prima del rapimento - il suo cammino anzitutto spirituale, che attraversa fasi difficili della storia recente dell’Algeria. In particolare, ritornano le riflessioni che accompagnano gli inizi degli anni Novanta, durante i quali il Paese è stato funestato da un’orribile ondata di terrorismo islamista, che ha provocato la morte di oltre 200 mila algerini e 19 tra religiosi e religiose della piccola comunità cristiana. Tra di loro, appunto, i sette monaci di Tibhirine, rapiti nella notte tra il 26 il 27 marzo del 1996 e uccisi presumibilmente il 21 maggio. E dopo di loro, un’altra grande figura della piccola e tormentata Chiesa d’Algeria, il vescovo di Orano, monsignor Pierre Claverie, assassinato insieme al suo autista Mohamed, il primo agosto di quello stesso anno. Con l’ex 'maestro' del Pisai (dove il giovane Christian studia per due anni), che un po’ alla volta diventa un 'amico fraterno', il monaco francese approfondisce il senso della sua presenza e di quella di un monastero trappista nel cuore di un mondo esclusivamente musulmano. «Io credo con tutte le mie forze - scrive il monaco - che per entrare in verità nel dialogo, dobbiamo accettare, in nome di Cristo, che l’islam abbia qualcosa da dirci. Altrimenti l’attenzione che mostriamo per l’altro resta sterile». Borrmans - che è stato anche direttore della rivista di studi
Islamochristiana, dalla fondazione nel 1975 al 2004 sostiene di aver «esitato a lungo» prima di rendere pubbliche queste lettere. «Poi c’è stato il film
Uomini di Dio, che è molto bello ma non dice tutto, e i libri di Christian Salenson (
Le Verbe s’est fait frère: Christian de Chergé et le dialogue islamo-chrétien, 2010 e
Retraite sur le Cantique des Cantiques: par Christian de Chergé, prieur des moines de Tibhirine, 2013 - ndr). Tutto questo ha contribuito a rendere pubblico, in maniera rispettosa, l’itinerario di Chergé: queste lettere potranno aiutare le persone ad approfondirlo». D’altro canto, lo stesso Borrmans, in questa corrispondenza, mette in gioco anche se stesso, le sue grandi conoscenze e la sua esperienza, quelle maturate prima in Tunisia, dove ha compiuto i suoi studi teologici e poi in Algeria, dove ha approfondito quelli relativi alla civiltà araba, sino ai Paesi del Golfo, dove ha trascorso quattro anni, prima di insegnare al Pisai il diritto islamico e la storia delle relazioni islamo-cristiane. Con molta onestà, non nasconde le sue divergenze con Christian, evidenziando le differenti vocazioni, quella monacale dell’amico e la sua di 'religioso militante'. Ma riconosce anche con grande umiltà che «Christian cresce e Maurice si fa più piccolo, senza peraltro scomparire». Anzi, da uomo del dialogo qual è, sostiene che «ci vogliono dei monaci sulla montagna per esplorare le convergenze ultime, e altri, nella piana, per incontrarsi, discutere e organizzare una comunità del vivere-insieme dove si può coesistere». Un messaggio che continua a interpellare anche la nostra epoca segnata da troppe e profonde divisioni.
LA LETTERA I monaci e i fratelli musulmaniCaro padre Borrmans,un ampio dibattito comunitario doveva esaminare la mia richiesta di promessa definitiva: la domanda, molto circostanziata, poneva nettamente la questione di una vocazione monastica che passava attraverso il canale della preghiera musulmana e della ricerca di una fedeltà a Dio nell’accoglienza di questo mondo, in cui il nostro monastero è inserito. Avendo convenuto all’unanimità che una tale vocazione non era incompatibile con la «specificità cistercense», definirono (per la prima volta!) la missione propria della nostra comunità, che è ormai accettata come «presenza di Chiesa orante in un contesto di preghiera dell’islam e di presenza monastica in seno alla Chiesa d’Algeria»: una formula così mirabilmente sintonizzata su ciò che «sento» e che sono dispiaciuto di vivere così male. Da quel momento, tutto è andato molto veloce; «stabilità» di tutti i fratelli venuti da altri monasteri; decisione di essere in nove, in modo che, nel bene o nel male, «cacciati da una città» andremo in un’altra, insieme con lo stesso desiderio di ascoltare Dio, che parla al cuore del fratello musulmano.
Christian de Chergé22 ottobre 1976