Il volto di Khashoggi in copertina sul Time - Ansa
Il nome di Jamal Khashoggi probabilmente non vi dirà nulla. Era un giornalista saudita, molto vicino alla famiglia reale che, a causa del giro di vite nel trattamento degli attivisti per i diritti umani, decide nel giugno del 2017 di lasciare il suo Paese e di trasferirsi negli Stati Uniti, dove inizia a collaborare regolarmente con il Washington Post. Khashoggi collabora anche con lo studente saudita Omar Abdulaziz, arrivato in Canada nel 2009 per frequentare la McGill University. In seguito alle sue critiche alla repressione saudita però la borsa di studio gli viene revocata dal governo del suo Paese e nel 2014 gli viene concesso l’asilo politico in Canada.
I due lavorano a vari progetti per portare una maggiore libertà di espressione in Arabia Saudita, elaborando anche programmi informatici per contrastare il controllo statale saudita dei social media e creando una squadra di utenti (the bees/le api) che denunciano la propaganda del regime. ll cellulare di Abdulaziz viene però hackerato dal governo saudita utilizzando il software spia Pegasus, acquistato dalla società israeliana NSO Group, e il 2 ottobre 2018, quando Khashoggi si reca al consolato saudita di Istanbul per ritirare i documenti necessari a sposare la fidanzata Cengiz, sparisce nel nulla. Solo il 20 ottobre, in seguito alle indagini della polizia turca, i sauditi ammettono che il dissidente è morto all’interno del consolato.
Scopriremo che il suo cadavere è stato smembrato con una sega da macellaio, gli arti e la testa sono stati staccati, il busto segato in due. L’uomo è morto pochi minuti dopo il suo ingresso nell’edificio mentre la fidanzata lo attendeva in strada. Lo sconvolgente documentario The Dissident realizzato da Bryan Fogel e disponibile con Lucky Red sulla piattaforma Miocinema, ricostruisce meticolosamente la storia di un massacro annunciato, le indagini condotte in Turchia e negli Usa, le responsabilità del Principe ereditario saudita Mohammed bin Salman considerato il mandante dell’omicidio, le pressioni su Abdulaziz, esercitate attraverso l’incarcerazione del fratello e di un gruppo di amici senza nessun capo di imputazione.
Ma ci restituisce anche la sostanziale indifferenza delle Nazioni Unite, dell’Europa e degli Usa di Trump pronti, in nome del petrolio e del denaro, a chiudere un occhio, anzi due, di fronte allo scandaloso e sistematico disprezzo dei diritti umani. «Fin dall’inizio, mi era chiaro che questo sarebbe stato un film sulla verità», ha dichiarato il regista, già vincitore di un premio Oscar per Icarus, sullo scandalo doping alle Olimpiadi di Sochi, in Russia, e la cosa che più lo ha sconvolto è stata «il dover affrontare lo schiacciante ammontare di prove e la sconcertante quantità di condotte illecite e di malafede. Non una singola nazione è stata disposta a prendere posizione contro il denaro rappresentato da questa monarchia assoluta».
A sconvolgervi però non sarà solo la brutalità di un assassinio che punisce il coraggio della verità e della libertà, ma anche il resoconto dei meccanismi di violazione della privacy che consentono alle dittature di manipolare la popolazione attraverso i social media. Un sistema complesso che invece di essere messo al servizio della lotta contro terrorismo e criminalità è diventata un’arma potentissima nelle mani di chi cancella libertà di pensiero e di parola.