sabato 17 aprile 2010
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È il 19 novembre 2009 quando ad Atlanta centinaia di aerei vengono lasciati a terra dagli uomini radar, con la torre di controllo del più trafficato scalo americano costretta a guidare a vista i piloti in fase d’avvicinamento. Colpa di quello che fu liquidato come «piccolo incidente informatico». Ma cosa sarebbe accaduto se il blackout non fosse stato accidentale e avesse colpito un’area più vasta?La risposta i terroristi la conoscono bene. E agli Usa fa paura. Basterebbe un virus partito da un cellulare per provocare reazioni a catena: «Come minimo 40 milioni di americani senza energia elettrica, telefoni muti per 60 milioni di persone, sistemi finanziari paralizzati e i vertici del Pentagono in stato confusionale». Queste catastrofiche previsioni sono emerse il 10 marzo nel corso di una simulazione denominata "Cyber ShockWave", che a Washington ha coinvolto i vertici di tutte le agenzie governative e del muscoloso sistema di difesa statunitense. Per alcune convulse ore è stato ipotizzato un attacco informatico contro le linee telefoniche ed elettriche, contro la rete e il sistema dei trasporti, mentre da altre città arrivavano notizie di esplosioni a danno di obiettivi strategici. L’allarme era stato lanciato già a febbraio da Dennis Blair, direttore della National Intelligence Usa, il quale davanti al Senato ha sostenuto «che i gruppi di terroristi ed i loro sostenitori sono interessati agli strumenti cibernetici per attaccare gli Stati Uniti». L’atto di guerra elettronica è stato inscenato dal "Bipartisan policy center". Si è chiuso nel modo peggiore: «L’opinione generale dei presenti – ha ammesso Eileen McMenamin, uno degli organizzatori – è che non siamo preparati ad affrontare e contrastare questo genere di attacchi». Nella situation room oltre ai capi dell’antiterrorismo era presente Stephen Friedman, ex consigliere economico di George Bush, a cui durante l’esercitazione era stato affidato il ruolo di segretario del Tesoro. Nel momento di massima tensione, quando la situazione era ormai fuori controllo, Friedman guardando in faccia l’ex capo dei servizi segreti John Negroponte e il generale Charles Wald, già vicecomandante delle forze Usa in Europa, fa una domanda: «Cosa possiamo fare per contenere l’attacco?». «Nessuno – rivela uno dei presenti – aveva una risposta».Ma chi sarebbe in grado di tentare un atto di guerra come quello rappresentato a Washington? «Dal punto di vista delle competenze tecniche i gruppi sauditi sono molto forti», sostiene Dominique Thomas, della Scuola di studi avanzati in scienze sociali (Ehess) di Parigi. Gli jihadisti hanno messo a punto «tutti i tipi di manuali – riassume – che spiegano come realizzare una bomba elettronica, come creare un virus, come utilizzare le tecniche avanzate di criptografia».L’immagine di primitivi combattenti che indossano il turbante e imbracciano vecchi kalashnikov è solo un cliché dietro al quale si celano avanzatissime multinazionali dell’eversione. Un po’ come nel film "Codice Sword Fish" del 2001, nel quale un terrorista (John Travolta) recluta il miglior pirata informatico del mondo per rubare milioni di dollari e acquistare testate nucleari.Le prove generali potrebbero avvenire in Asia. Gli specialisti filippini lo danno per certo. Non a caso proprio da Manila partirono le comunicazioni internet e telefoniche tra i terroristi che il 26 novembre 2008 assaltarono alcuni hotel di Mumbai: 195 morti e 300 feriti.«Ci aspettiamo attacchi critici alle infrastrutture delle comunicazioni, perciò abbiamo intensificato le esercitazioni», rivela Geronimo Sy, primo consigliere del ministero della Giustizia di Manila. «In apparenza terroristi e criminali usano internet per scopi differenti, i primi vogliono creare il panico attraverso azioni distruttive, i secondi agiscono solo in funzione del profitto». Il punto è che «anche i terroristi hanno bisogno di soldi ed allora – arguisce – i metodi dei cybercriminali sono indispensabili anche ai network del terrore». A Manila lo hanno compreso quando tre anni fa, poco lontano dalla capitale, furono arrestati 25 stranieri. Tra essi Nusier Mahmoud, giordano di origine palestinese. Per anni Nusier era riuscito a nascondere la sua identità. Gli agenti dell’Fbi parlavano di lui semplicemente chiamandolo «the alien». Un alieno che era riuscito, attraverso complicità in ogni continente – tra cui i gestori pachistani di un centro telefonico di Brescia – a mettere insieme una squadra di incursori informatici in grado di violare i sistemi di alcune compagnie telefoniche statunitensi, acquisendone i codici di accesso che abilitavano alle chiamate internazionali. Uno stratagemma grazie al quale fu diretta l’unità terroristica che colpì Mumbai e che in due anni si era autofinanziata raccogliendo, solo attraverso l’Italia, 400mila dollari.Gli attacchi del cyberterrorismo alle reti digitali sono «una delle minacce più serie alla sicurezza nazionale americana», ha detto nei mesi scorsi il presidente Obama, rivelando tra l’altro che i sistemi militari e della sicurezza Usa «sono costantemente sotto attacco». I paesi maggiormente a rischio sono «Stati Uniti, Russia, Francia, Israele e Cina». Lo sostiene il colosso della sicurezza informatica McAfee, che nei giorni scorsi ha presentato al Consiglio d’Europa uno studio tutt’altro che rassicurante. Nell’ultimo anno, si legge nel rapporto affidato a trecento esperti riunitisi a Strasburgo, gli attacchi informatici con movente politico sono stati intensificati in tutto il mondo. Solo negli Usa, gli obiettivi più colpiti sono la Casa Bianca, i Servizi segreti, il dipartimento della Sicurezza e della Difesa. «Oggi – sostiene Dave DeWalt, presidente di McAfee – le armi non sono solo nucleari, ma anche virtuali, e tutti devono adeguarsi a queste minacce».
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