Fra le colline che salgono verso Montalcino, ancora non si sono abituati a imbattersi nelle auto targate Germania o Gran Bretagna da cui è appena scesa un’intera famiglia che si mette in posa lungo il ciglio della strada per fotografarsi davanti a vigneti che sembrano giardini. «Da quarantotto anni vedo questi paesaggi che affascinano il mondo. E ancora mi sforzo di capire dove sta il segreto», confida il direttore del Museo della comunità di Montalcino e del Brunello, Maurizio Giannelli. Eppure il nome di questo Comune di appena 5 mila abitanti, estrema propaggine del suolo senese prima dei boschi maremmani e del Monte Amiata, ha varcato gli oceani ed è diventato un biglietto da visita per il Bel Paese nei continenti. Potere del suo prestigioso vino, il Brunello, figlio nobile del vitigno sangiovese che in questo fazzoletto di terra ha trovato un’incubatrice unica. Per chi arriva qui sembra quasi che l’arte del vino abbia accompagnato da sempre Montalcino. Errore da principianti. La coltura intensiva della vite è soltanto ottocentesca. E la storia di questo angolo di Toscana racconta altro. Racconta i suoi legami con la civiltà etrusca, le sue radici cristiane testimoniate dall’eredità dell’abbazia di Sant’Antimo e dalle pievi che puntellano il panorama. E racconta il suo ruolo da «piazza e sedia di guerra» nelle contese fra Firenze e Siena. Del miracolo enologico non c’è traccia neppure nel gonfalone: nessun riferimento alla vite, ma soltanto un richiamo al leccio, essenza da cui deriva anche il nome della cittadina che sarebbe la fusione dei vocaboli latini
mons (monte) e
ilex (leccio). Ecco, allora, che il volto più remoto di Montalcino si trova a tre chilometri dal paese, a Poggio alla Civitella, dove un sito archeologico ci riporta all’Etruria con la sua fortezza del VI secolo avanti Cristo che oggi attrae studiosi e scienziati. Il più antico documento che citi Montalcino è del 715. Firmato dal re longobardo Liutprando, narra la controversa fra i vescovi di Siena e Arezzo per il possesso di alcune pievi della zona. Sono le stesse che, insieme con suggestivi agglomerati, si possono ancora ammirare: come la pieve di Santa Restituta, già conosciuta nel 650, o il borgo di Sant’Angelo in Colle che, con la sua forma circolare, svetta su una collina. Certo, la vera gloria passata di Montalcino va a braccetto con l’abbazia di Sant’Antimo, gioiello monastico incorniciato nella piccola valle attraversata dal torrente Starcia. A sud sorge l’abitato di Castelnuovo dell’Abate; a ovest il tramonto verso la Maremma è nascosto dal Poggio d’Arna dove di recente è stata piantata una croce di 17 metri dedicata a Carlo Magno. Perché vuole la leggenda che l’abbazia sia stata fondata dall’imperatore del Sacro Romano Impero. Ben più probabile che dopo il martirio di Antimo di Arezzo, avvenuto nel 352, alcuni suoi figli spirituali abbiano costruito un oratorio per pregare sulle sue reliquie. E nel 781 Carlo Magno, seguendo la grande arteria di comunicazione creata dai Longobardi – che poi sarà la Romea – pone il sigillo sulla fondazione. La cappella e la cripta carolingia, il chiostro, la chiesa con i capitelli in alabastro attraggono da secoli «pellegrini e viandanti alla ricerca della fonte della salvezza», spiegano i monaci dell’Ordine dei Canonici regolari legati al carisma di sant’Agostino, cui oggi è affidato il complesso. Ed è nel 814 che Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, concede all’abbazia la giurisdizione di Montalcino. È il primo atto ufficiale sul paese d’impronta medievale progettato secondo una cultura urbanistica che richiama le città romane. Sull’«irto sito» a cinquecento metri si trovano strade «larghe» e piazze «piane e grandi». Ciò che colpisce appena giunti è la torre del Palazzo dei Priori. La cittadina conserva ancora le mura di cinta, lascito della fortificazione voluta nel 1100 dalla Repubblica di Siena. Ma sarà con la battaglia di Montaperti del 1260 che il borgo entra definitivamente nell’orbita di Siena che ne fa un caposaldo difensivo, costruendo in soli due anni la poderosa rocca che dal Trecento continua a essere il simbolo dell’autonomia da Firenze. L’impronta cristiana trova il suo suggello nella Via Francigena. La frazione di Torrenieri deve la sua fama al castello ricordato dall’arcivescovo di Canterbury, Sigerico, nel suo viaggio verso Roma del 990, e nominato fra le pagine del
Decameron di Boccaccio nella novella su Cecco Angiolieri. Altra tappa della Francigena, visitata da Papi e re, è la badia Ardenga, antica abbazia vallombrosana che nel 1213 viene menzionata per aver accolto l’imperatore Arrigo VI. Sarà, poi, Enea Piccolomini, passato alla storia come papa Pio II e nativo della vicina Pienza, che eleverà Montalcino al rango di città e poi di diocesi nel Quattrocento. Ne è rimando il Duomo di San Salvatore insieme con le opere custodite nel Museo civico e diocesano. Dal Seicento Montalcino vive secoli di oblio. Sarà con il vino che si ritaglierà di nuovo il suo spazio. Certo, ben poco resterebbe dell’odierna risonanza di questa cittadina se non fosse per la dinastia dei Biondi Santi che con Clemente produce, dopo lunghe ricerche, le prime bottiglie a metà Ottocento; e ancora per l’enologo Riccardo Paccagnini (1854-1934) e per Giovanni Colombini (1903-1976). È quanto narra il Museo del Brunello nella Fattoria dei Barbi. «Negli anni Sessanta, con la fuga dalle campagne – spiega Giannelli – la produzione enologica ha rischiato il tracollo. Adesso siamo una sorta di eldorado». Dove si educa anche a bere il Brunello in modo intelligente. Lo dimostra l’esperienza dell’associazione «Vino e salute» che da Montalcino si conquistando l’Italia.