Esiste ancora un lato occulto del riarmo dell’Italia, nella seconda guerra mondiale, e ciò getta luce soprattutto sul ruolo equilibratore svolto da Mussolini, come ago della bilancia tra Hitler, da un parte, e la Francia e l’Inghilterra, dall’altra. Dossier illuminanti, che emergono dopo settant’anni dagli archivi privati di un ministro di Mussolini, Raffaello Riccardi, sotto chiave alla Wolfsoniana di Genova (la collezione del miliardario di Miami Mitchell Wolfson), ci mostrano quanto la Svizzera, ad esempio, temesse lo strapotere della Germania nazista in Europa. Il governo della Confederazione elvetica, che pure fin dagli anni Venti aveva ospitato sul proprio territorio la ricerca e lo sviluppo della produzione di armi da guerra tedesche, banditi dai Trattati di Versailles, nel fatale 1940 – dopo la caduta della Francia e lo sconfinamento delle armate di Hitler fino alla Manica – cominciò a temere la cancellazione della nazione dalle carte geografiche. Riccardi, che fu ministro degli Scambi e valute (cioè del Commercio estero) dal 1939 al 1943, fu il protagonista nascosto di una lotta acerrima condotta contro il dilagare dell’egemonia germanica sul Continente. A quanto si legge dai documenti, inediti e sorprendenti, il Duce fino a un certo punto fu dalla sua parte nel tentativo di contenere gli effetti devastanti del »nuovo ordine europeo» dettato dall’aggressivo espansionismo militare hitleriano. Che, a quel tempo, la Svizzera si sentisse vulnerabile lo afferma esplicitamente anche Renzo De Felice, per il quale «da parte italiana si era contrari allo smembramento della Svizzera». La violazione della sovranità e neutralità elvetica, continua il massimo storico del fascismo, «avrebbe dato in mano ai tedeschi gran parte dell’industria elvetica», mentre l’interesse italiano era quello di mantenerla nella propria orbita. De Felice aggiunge un elemento importante: «Non è certo privo di significato a questo proposito che proprio nell’estate del 1940 il ministro Riccardi suggerisse ai uno dei più importanti esponenti dell’industria svizzera, Emil Bührle, di trasferire i suoi stabilimenti a Milano e di fondersi con la Fiat per evitare il pericolo di cadere sotto la dipendenza della Germania». Di più, finora, non si sapeva. Ora, però, dagli incartamenti di Riccardi scopriamo che il «suggerimento» del ministro italiano fu qualcosa di assai più concreto di un semplice auspicio. Nei fascicoli della Wolfsoniana, autentica miniera di preziosità storiche, salta fuori una bozza di accordo per la creazione di una società mista italo-svizzera, frutto della fusione del polo elvetico del gruppo Oerlikon – i colossali impianti della Werkzeugmaschinenfabrik di Zurigo –, con la torinese Fiat. I due gruppi industriali avrebbero sottoscritto ciascuno il 50% del capitale sociale e la prima beneficiaria dell’operazione sarebbe stata l’Italia, che avrebbe potuto approvvigionarsi di materiale bellico di importanza strategica. Come infatti recita esplicitamente lo schema di accordo – a quanto risulta mai ratificato – «sebbene in Italia si costruiscano cannoni antiaerei dello stesso calibro di Oerlikon, tuttavia non si fabbricano ancora cannoni per armamento di aeroplano». Magnate della Oerlikon era il tedesco Emil Bührle, ex ufficiale di cavalleria nell’imperial-esercito prussiano durante la Grande Guerra e collezionista di arte. Dal 1938 al 1940, la Oerilikon e le altre industrie belliche svizzere avevano sostenuto soprattutto il riarmo di Francia e d’Inghilterra. Ma dopo il crollo di Parigi, nel giugno 1940, e la firma dell’armistizio da parte del maresciallo Pétain, l’establishment politico-militare di Berna premette su Bührle perché supportasse le richieste della Wehrmacht. L’industriale, che disponeva dei migliori contatti con Berlino, all’inizio di agosto del ’40 ricevette dalla Marina e dal Comando supremo dell’esercito tedeschi ordinativi di armi e munizioni per 195 milioni di franchi. Come afferma il Rapporto finale della Commissione Bergier sulla Svizzera nella seconda guerra mondiale (pubblicato nel 2002), «entro il gennaio 1943 l’emissario e delegato tedesco agli armamenti Rudolf Ruscheweyh, corrotto da Bührle con 11 milioni di franchi, riuscì a procurare dall’esercito e dalla Marina altre ordinazioni per 246 milioni; entro l’ottobre 1944 Bührle, stando alla sua contabilità interna, fornì alla Germania mitragliere da 20 millimetri, munizioni e spolette per circa 400 milioni di franchi». Nel contempo, la collezione d’arte privata del magnate della Oerlikon si arricchì di numerosi pezzi pregiati, come il Paysage di Van Gogh: una decina di opere che nel dopoguerra furono rivendicate dai legittimi proprietari ebrei, come i Rothschild e i Rosenberg. La Oerlikon a un certo punto cominciò a temere per la propria sopravvivenza e si preparò all’eventualità che, in caso di invasione tedesca della Svizzera, la sua produzione bellica potesse proseguire indisturbata all’estero. La mano tesa dell’Italia giunse così come un aiuto provvidenziale, in un momento drammatico, delicato e soprattutto gravido di incognite. Il testo dell’accordo segreto per la costituzione della Oerlikon-Fiat, a questo proposito, parla chiaro: «Nella ipotesi dell’evento che la Oerlikon dovesse, per ragioni di politica internazionale, cessare in territorio elvetico la sua produzione, tutto il suo complesso industriale e commerciale sarà messo a disposizione della Società Italiana in Italia, la quale potrà rilevarlo in tutto o in parte a seconda delle proprie necessità». La società mista, che in base al testo di accordo avrebbe dovuto costituirsi «entro il 31 dicembre 1940, con sede in Italia» e con una durata trentennale, aveva uno scopo ben preciso, vale a dire «lo studio, la fabbricazione, il montaggio, la vendita di armi da fuoco in genere per impiego di guerra, con prevalenza di quelle automatiche e delle loro parti; e la fabbricazione, il caricamento, la vendita dei relativi materiali di munizionamento delle loro parti e accessori». Se questo progetto non decollò, fu per ragioni di opportunità politica generale. La Germania, fino al termine del conflitto, continuò a rispettare formalmente la sovranità della Svizzera, che divenne sempre più dipendente dall’export con la Germania, fornendo al Reich la propria piazza finanziaria per il riciclaggio dei proventi del saccheggio e della rapina dell’intera Europa. Può non piacere che sia avvenuto così: ma questa, purtroppo, è la verità. Il governo di Berna si piegò ai diktat di Berlino come e più ancora di quello di Vichy. Emil Bührle scomparve a Zurigo il 26 novembre 1956, a 66 anni: prima di morire, fu costretto dal Tribunale Federale a restituire tutte le opere d’arte illegittimamente detenute.