Non ne sa il nome e non ricorda il suo volto. La voce, quella sì, saprebbe riconoscerla. Ancora, a 35 anni di distanza. All’epoca ne aveva sette. «Per ore mi ero stretto al corpo tremante di mio padre», racconta. Poi, il militare sbucò dal verde ostile della vegetazione. Sentì i suoi occhi conficcati sulla fronte. Una frase ruppe il silenzio: «Sono solo un bambino e un vecchio. Lasciamoli andare». Una manciata di parole: undici per l’esattezza. Sono bastate, però, per decidere il futuro di Julio Rivera. «E fare di me un sopravvissuto, invece che una delle centinaia di vittime del massacro del Sumpul», aggiunge. Almeno 300, secondo la Commissione verità sui crimini della guerra civile salvadoregna (1980-1992). Tra 600 e 900 per le organizzazioni dei diritti umani. Quasi tutti donne, bimbi, anziani. Sumpul. Il fiume scava inesorabile la distesa di rocce lungo il confine tra El Salvador e Honduras, in un andirivieni d’anse contorte. Difficile, dal ponte, scorgere Las Aradas, la spianata dell’eccidio. «È lì, dove la vegetazione si dirada», spiega Amaru. Ci vogliono almeno due ore di cammino per arrivarci. Dopo aver chiesto il permesso alla famiglia Chinchilla, proprietaria di questa terra. Altrimenti si rischia di trovare l’accesso sbarrato. Su un masso si legge: «Luogo della memoria». Nel 2012, Mauricio Funes – primo presidente di centro-sinistra dopo 20 anni di egemonia dell’ultra-destra – ha dichiarato Las Aradas “patrimonio storico”. E ora il “comitato per la memoria” è impegnato nella battaglia pacifica per “disseppellire la verità”. «L’idea non è rivangare il passato. Bensì costruire il futuro, senza ripetere gli stessi errori e orrori », spiega padre Miguelito Vázquez, gesuita e parroco di Aracatao, tra i primi a documentare i crimini di guerra e promotore, insieme a Rosita Rivera, di un piccolo museo della memoria, ancora in costruzione. Con l’aiuto del sacerdote, il comitato ha avviato una maxi-colletta per raccogliere i 21mila dollari richiesti dai Chinchilla per acquistare Las Aradas. «La gente è povera ma ha fatto di tutto per racimolarli, dalle lotterie alla vendita di dolci. Per ora sono arrivati a 7mila. I proprietari, però, hanno promesso di attendere fino al 2016», afferma padre Miguelito. L’obiettivo è trasformare Las Aradas in un parco memoriale. «Per dare dignità ai nostri morti. Per testimoniare ai giovani l’inutilità della violenza. Per rompere il silenzio», dice Julio. Per decenni, i contadini salvadoregni hanno dovuto bisbigliare il nome del fiume. In molti volevano cancellare quanto accaduto sulle sue rive quel piovoso 14 maggio 1980. Dal giorno “Sumpul” ha smesso di indicare un luogo fisico, per entrare nella “geografia dell’orrore” del conflitto. Insieme a El Calabozo, El Junquillo, Copapayo e El Mozote…: 193 località-sinonimo di altrettante stragi di civili. Il massacro del Sumpul non è stato solo il primo, in ordine cronologico, di troppi. È stato il laboratorio in cui le Forze Armate sperimentarono la tattica della “tierra arrasada” (terra bruciata). Lo sterminio sistematico, cioè, della popolazione civile – neonati inclusi – considerata potenzialmente vicina alla guerriglia. «Noi contadini cercavamo solo di organizzarci per chiedere ai latifondisti cibo non scaduto, la paga dovuta, il diritto alla malattia. Meno di due mesi prima del Sumpul, assassinarono monsi- gnor Óscar Romero. Lui era uno dei pochi a denunciare le stragi, citando vittime e carnefici. Per questo, prima di iniziare la mattanza sistematica, vollero eliminarlo. Messa a tacere la sua voce profetica, si sentirono liberi di massacrarci », afferma Julio. La repressione rurale, in realtà, cominciò dagli anni Settanta. «Bastava partecipare ai corsi di formazione della parrocchia per finire nelle liste di morte. Uccisero mia madre e i miei tre fratelli. Mio padre e io fummo costretti a “guindiar”: sopravvivere nascosti sulle montagne, con centinaia di altri disperati». Julio parla con toccante compostezza, seduto su una panca della chiesa di Nueva Trinidad. La cittadina è stata fondata il 22 marzo 1991 da 260 profughi della guerra civile rientrati dall’Honduras, sulle ceneri di La Trinidad, rasa al suolo dai soldati. Al centro, vi è un enorme albero. Ai suoi rami, i militari appendevano i corpi torturati di quanti venivano catturati. Nella chiesa, gli affreschi della Via Crucis ritraggono Gesù insieme civili straziati a Las Aradas. «La gente, in fuga dalla repressione, iniziò a concentrarsi in riva al fiume da gennaio 1980. Erano quasi tutti bimbi, donne e vecchi. Gli uomini rimasero nascosti. Alla fine eravamo in mille. E avevamo appeso sugli alberi, le bandiere bianche per rendere chiaro che non c’erano guerriglieri, solo civili. Quella fu la nostra condanna a morte: l’esercito capì che eravamo indifesi ». L’attacco fu pianificato e realizzato, come dimostrano le ricerche storiche, dalla Guardia nacional con la complicità dei militari honduregni che impedirono la fuga sull’altra sponda. «I soldati arrivarono all’alba. Prima fucilarono gli uomini più giovani. Poi se la presero con gli altri: strappavano i neonati dalle braccia delle madri e li infilzavano con la punta del fucile. L’acqua del fiume divenne rosso-sangue». Andarono avanti fino al tramonto. E Julio lo vide, nascosto sulla riva honduregna: lui e il padre avevano attraversato il ponte prima che l’aviazione lo distruggesse». Ora ho il dovere della memoria». La memoria. L’esercito salvadoregno cercò in ogni modo di seppellire le tracce del massacro. Blindò l’accesso alla zona per settimane, lasciando i cadaveri in pasto ai cani. Eppure la notizia raggiunse ugualmente la diocesi di Copán, in Honduras, che, insieme alla Chiesa salvadoregna, denunciò la strage. Confermata dalle foto del giornalista cileno Gabriel Sanhueza Juárez. Nonostante le prove, i responsabili del massacro non sono stati mai condannati. «Il perdono? Attendiamo che ce lo chiedano. In quel caso, penso che saremmo pronti a concederlo », conclude Julio. Nel frattempo, la voce dei superstiti incide la verità sulla roccia, come l’acqua del Sumpul.