domenica 11 settembre 2016
La spinta di Sukhdev: «Salviamo il mondo»
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Le previsioni sono terribili, ma Pavan Sukhdev le elenca con una disinvoltura che può lasciare stupefatti. Ma lei non è preoccupato?, viene da domandargli. «Chiaro che lo sono – risponde senza perdere il sorriso –, però penso che siamo ancora in tempo a intervenire. Purché lo facciamo subito, adesso, tutti insieme». L’ente di consulenza di cui è fondatore e direttore, Gist Advisory, ha tra i suoi clienti governi, aziende e società non governative, ma Sukhdev non dimentica di aver lavorato per molti anni alla Deutsche Bank. «Vuole il mio parere sul sistema bancario italiano? – chiede anticipando la curiosità dell’intervisitatore – È in una situazione molto rischiosa, che richiederebbe l’intervento immediato sia delle vostre istituzioni sia di quelle europee.

 Tecnicamente, purtroppo, non è sbagliato parlare di bancarotta, anche in considerazione della fragilità della stessa Banca d’Italia. È molto semplice: più è solida la banca centrale, più è solido il sistema. Bisogna fare presto, altrimenti l’economia italiana continuerà a languire». «Fare presto» è, in effetti, la parola d’ordine di questo economista di origine indiana (è nato a Delhi nel 1960), perfettamente anglosassone nei modi, ma determinato nel promuovere la conversione alla sostenibilità. Al Festivaletteratura di Mantova è intervenuto ieri a fianco di Carlin Petrini e di Leonardo Becchetti per parlare dei temi che stanno al centro dei suoi saggi pubblicati in Italia da Edizioni Ambiente: il best seller Corporation 2020 (traduzione di Laura Coppo e Toni Federico, pagine 288, euro 24,00) e l’importante contributo compreso in Eating Planet, una raccolta di interventi su cibo e sostenibilità promossa dal Barilla Center for Food & Nutrition (pagine 318, euro 25,00).

Perché Corporation 2020? «Perché l’attuale modello di produzione è fermo al 1920 – dice Sukhdev –. Ci si concentra unicamente sul profitto e in sostanza si ignorano le “esternalità”, le conseguenze anche ambientali del processo industriale. Anche se in via teorica tutti ammettono l’importanza della green economy (“verde” in quanto sostenibile), il mondo va ancora nella direzione della brown economy, dove il “marrone” indica gli effetti dell’inquinamento ».

Che cosa dovrebbe accadere entro il 2020? «Per quella data, o al più tardi per il 2025, va arrestata l’accelerazione di cui siamo stati testimoni negli ultimi decenni. Dalla produzione di anidride carbonica allo sfruttamento del suolo, i confini si stanno spostando sempre più in là, con ricadute tanto più disastrose quanto più inavvertite ».

Per esempio? «La presenza di anidride carbonica nell’atmosfera sta crescendo in modo esponenziale, lo sappiamo. Per millenni, prima dell’età industriale, la concentrazione non ha mai superato le 250 parti per milione di volume, mentre il dato attuale sfiora e presto supererà quota 400. Questo influisce in modo consistente sull’acidificazione degli oceani e, quindi, sull’impoverimento della fauna ittica, dalla quale proviene il maggior apporto di proteine per oltre un miliardo di persone che vivono nei Paesi più sviluppati del mondo. Ma questa connessione fra emergenza ambientale ed emergenza alimentare è solitamente passata sotto silenzio».

Quali sono gli altri elementi di rischio? «La distruzione della biodiversità, con quella che ormai viene chiamata “la sesta estinzione”, e la situazione critica di elementi cruciali quali il fosforo e l’azoto: in veloce assottigliamento il primo, in continua sovrapproduzione il secondo. In entrambi i casi lo squilibrio ha conseguenze letali».

Tutti i fattori sono interconnessi? «Sì, ma ancora più grave è il fatto che questi fenomeni si stiano verificando contemporaneamente, in modo eccessivamente rapido e violento. Molte responsabilità pesano sull’attuale conformazione della catena alimentare, caratterizzata da sprechi sistematici sia nell’utilizzo sia nella produzione del cibo. Ecco perché dobbiamo agire al più presto. E dico “dobbiamo” perché il cambiamento dipende da tutti e da ciascuno: da me, da lei, da chi sta leggendo questa intervista».

Sta dicendo che la questione è anzitutto culturale? «Di comprensione e condivisione del problema. Auspicare la nascita di un movimento dal basso, però, non significa sollevare le istituzioni dalle loro responsabilità. Occorrono governi seriamente interessati alle tematiche ambientali, occorrono leggi che sappiano innovare con coraggio in ambiti finora trascurati. Penso alla condizione dei piccoli agricoltori nel mondo e, più ancora, a quella delle donne in Africa, dalle quali dipende gran parte delle colture in quel continente».

La crisi economico-finanziaria ha ulteriormente peggiorato il quadro? «Al di là della crisi in sé, sono state le soluzioni adottate a mancare completamente il bersaglio. La brown economy non ha fatto altro che lavorare per la propria sopravvivenza e gli investimenti, sia pure ingenti, sono stati decisi secondo la logica di un profitto meramente materiale, del tutto disinteressato al capitale umano, che rappresenta invece uno dei capisaldi della green economy. Gli strumenti meno adatti sono stati usati nel modo più sbagliato».

Immagino che lei conosca la Laudato si’.  «Certo, e la considero un documento straordinario. La prima parte, nella quale papa Francesco investe la Chiesa cattolica del problema ambientale, mi ha molto colpito, ma non sono rimasto meno impressionato dalle considerazioni tecniche che si trovano nel resto dell’enciclica. L’aspetto più straordinario sta nel fatto che una guida spirituale tanto rispettata a livello mondiale abbia voluto farsi carico dei drammi derivanti dal cambiamento climatico, anche e specialmente in rapporto al dilagare delle diseguaglianze».

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