Quanto valgono 43 milioni di ascolti in streaming? La bella cifra di 2.700 dollari. Deve essere rimasto a bocca aperta Pharrell Williams nel dicembre scorso quando ha letto il rendiconto della sua hit
Happy su Pandora, una dei maggiori “player” di musica online insieme a Spotify, Deezer e Google Play. È un settore in piena esplosione: nel 2014 i servizi sostenuti da pubblicità sono cresciuti dell’84% mentre quelli in abbonamento del 82%. Lo streaming è passato dal 12% al 22% del mercato generale e nel digitale ha superato il download: 57% contro il 43%. Una crescita a cui, secondo la Fimi, si deve l’inversione di tendenza del mercato discografico, che nel 2013 ha arrestato un calo durato ininterrottamente per 11 anni. Lo streaming sembra essere il futuro della fruizione della musica, ma a quale prezzo? Spotify paga come diritti tra 0,0006 e 0,0084 dollari ad ascolto. Una cifra che va divisa tra artisti, etichette, editori, distributori. La percezione di non ricevere un giusto compenso per la propria musica è diffuso. All’estero l’estate scorsa ha fatto scalpore la “rivolta” di Taylor Swift, tra le maggiori pop star americane, che ha ritirato in blocco il suo catalogo da Spotify. Il quale però afferma di trattenere per sé solo il 30% del fatturato e di versare il resto alle case discografiche: due miliardi di dollari in sei anni. A giugno dovrebbe debuttare il nuovo servizio di streaming di Apple. Una discesa in campo importante, anche perché si porterebbe in dote da iTunes, che ne ha l’esclusiva strappata a suon di milioni, il catalogo dei Beatles. In gioco non c’è semplicemente la supremazia nel settore “merceologico” della musica liquida ma il fatto che proprio questi servizi musicali sono un volano determinante per il mercato degli smartphone (basti vedere in questi giorni, ad esempio, la promozione di un operatore telefonico italiano che include un abbonamento a Napster e cuffie in omaggio). Un nuovo stadio del processo della riduzione della musica a gadget, dopo essere diventata veicolo per incentivare le vendite di bibite e quotidiani. Le polemiche sullo streaming sono una parte del grande calderone dei diritti e della loro redistribuzione, oggi il vero tema caldo per quanto riguarda la musica e l’audiovisivo. È una battaglia che comprende i diritti primari (come quello d’autore) e connessi (ossia quelli legati, ad esempio, agli esecutori). Un altro fronte aperto è, ad esempio, quello televisivo. I diritti della musica in questo ambito sono soggetti a una contabilità minutissima, basata su una decina di tipologie di utilizzo. Agli estremi ci sono il concerto e lo spettacolo musicale (in cui la classica vale più della musica leggera) e le sigle e gli stacchi musicali dall’altra, che compensano
royalties basse con la quantità. I diritti vengono pagati in base alla durata in secondi, ma il valore di ogni secondo varia in funzione della tipologia di utilizzo e dell’emittente che trasmette. Le “quotazioni” sono rimodulate ogni sei mesi. Nell’ambito delle generaliste, un minuto di musica tendenzialmente in Rai vale in diritti di esecuzione più del doppio che in Mediaset, mentre su La7 la cifra è esigua. I numeri, già non astronomici, crollano passando alle reti del digitale terrestre, dove un minuto di musica, anche in primo piano, passa rapidamente da pochi centesimi di euro a qualche millesimo. In un’epoca di spending review ogni voce in bilancio è però sotto la lente di ingrandimento. Così il 23 ottobre scorso il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, ha diramato una comunicazione interna in cui si indica che «a decorrere dal 1° novembre 2014 le musiche previste all’interno dei programmi radiotelevisivi dovranno essere tutte edite da Rai Com Spa, fatta eccezione per casi specifici, adeguatamente motivati ed espressamente autorizzati dal Direttore competente ». Una soluzione che consentirebbe in sostanza di far rientrare nelle casse della Rai una quota delle cifre versate come pagamento dei diritti. Ma che fa storcere il naso ai professionisti del settore: «Oggi major e tv pretendono per sé anche i diritti delle edizioni - accusa un autore di successi storici della canzone italiana - ma la riduzione del numero di editori sottrae denaro al sistema. Non c’è più mercato. La musica vale ogni giorno sempre meno».