L’esposizione principale della Biennale all’Arsenale - Avvenire
Due sono i fili conduttori di questa nuova edizione della Biennale di Venezia dedicata all’arte: lo straniero e l’elemento popolare dell’arte. Dentro questi due “contenitori” semantici si trovano altri temi che rendono una nuova attualità a parole molto logorate dal tempo e dall’uso. Dentro straniero risuonano termini come diversità e differenza, ma anche intruso ed estraneo; e questioni che rientrano nel coloniale, vale a dire razzismo, discriminazione, risarcimento. Nel discorso popolare si trovano invece questioni che hanno una proiezione più culturale ed estetica: tradizione, modernità, idiomi e linguaggio, estetica e valori. Diceva Tolstoj che l’arte popolare deve avere all’origine, ma anche al punto di arrivo, un popolo. Baudelaire, nella Parigi che si vedeva come capitale della modernità, scrisse che l’arte si riconosce dal suo pubblico. Il popolo: come entità dotata di anima, lo troviamo ormai soltanto nei Paesi del Terzo e Quarto Mondo, dove ancora esiste una idea antica di comunità e resiste una tradizione antropologica peraltro assediata dalla famelicità del mercato globale. Il pubblico: è la bestia che viene provocata affinché s’ingozzi con tutto ciò che il sistema culturale produce ma, rispetto all’epoca di Baudelaire, si nutre in modo bulimico a causa della caduta di criteri di giudizio che hanno fatto del pop-kitsch la lingua delle società democratiche, dove è sempre più labile il gusto artistico. Non è un caso, allora, se oggi molti sono convinti che la critica d’arte è diventata superflua. Come nella democrazia, il numero ha sempre ragione sulla qualità, anche se con la possibilità di disastri.
Da diverse edizioni la Biennale cerca di far emergere le culture messe ai margini. Esiste una lunga storia dei “non dominanti” – che vennero anche definiti “minoranze” e che oggi paradossalmente trovano una loro centralità, persino sproporzionata talvolta – dove poteva accadere, come nell’edizione scorsa dedicata all’Architettura curata da Lesley Lokko, che l’Africa diventasse “laboratorio del futuro”. Lasciamo stare la questione dei nuovi diritti sociali, presenti quasi come un dato acquisito anche in questa nuova edizione, e consideriamo che nel titolo Stranieri ovunque scelto dal curatore brasiliano Adriano Pedrosa, si tenta una rivincita di quei popoli troppo a lungo penalizzati da un sistema dell’arte – che, in fondo, è stato quasi una forma di discriminazione coloniale attraverso il mercato -, al punto che la maggior parte degli artisti scelti dal direttore sono presenti con opere mai prima esposte in una Biennale e la clausola viene ripetuta sotto ogni cartellino che le identifica. Stranieri alla storia della Biennale, perché mai esposti prima, ma nuovi comunque per un immaginario fortemente popolare (che interseca storia sociale e politica, dissenso e diaspora: c’è anche una grande sala dove artisti italiani che hanno vissuto più o lunghe esperienze all’estero, vengono raccolti sotto il titolo “Italiani ovunque”). Esiste anche un “Nucleo storico” nella mostra come sempre divisa fra Arsenale e Palazzina dei Giardini, che partecipa per la prima volta alla Biennale e si tratta in genere di artisti vissuti nel Novecento, anche morti, e in questo modo si vuole risarcirli di una mancata attenzione al loro lavoro.
Susanne Wenger, “Donna maga”, 1960 - La Biennale di Venezia
Possiamo dire che questa edizione, più delle precedenti, ha una chiara impostazione antropologica, dove l’arte è il mezzo con cui gli artisti parlano di una storia che non è soltanto la loro, ma delle comunità e dei popoli, un idioma visivo spesso “popolare”: tra naïf e fantastico, tra primitivo e simbolico, tra racconto e immaginario sociale. Spesso si sente il peso delle dittature, dei regimi e dell’imperialismo, di una cultura della cittadinanza che se da un lato risente di arretratezze politiche e dall’altro conserva ancora costumi considerati preziosi per l’identità di quei popoli grazie alle tradizioni. Pedrosa, che dirige il Masp di San Paolo, creato da Pietro Maria Bardi quando venne via dall’Italia, ha una formazione che lo porta a dare molta importanza al messaggio, quindi alla comunicazione, rispetto all’emergenza formale e artistica. Nell’insieme vediamo opere di autori che rappresentano bene la loro provenienza dalle loro culture, che in molti casi scopriamo per la prima volta, e di cui possiamo dire, con il metro dell’arte, che pur essendo interessanti quasi mai spiccano per genialità. Quello che vediamo appartiene spesso e generalmente alla “creatività” e si radica in una storia quasi “estranea” all’Occidente.
Questo può non significare molto, perché Pedrosa non se lo pone come problema, in quanto la sua intenzione è appunto risarcire una storia, le singole storie degli artefici e della loro cultura, porre sotto gli occhi di tutti un insieme a tratti persino omogeneo nei linguaggi (molta pittura, opere fatte con stoffa o ricami, bellissime le tele dipinte con pittura batik dell’austriaca Susanne Wenger, sulla base delle usanze yoruba; ma anche scultura e composizioni che talvolta rasentano l’artigianato, poche installazioni e video, e un’attenzione verso alcuni generi: il ritratto per esempio, con una sala suggestiva che ne somma un centinaio ai Giardini; all’Arsenale spiccano per timbro stilistico i ritratti di personaggi africani che guidarono il movimento antischiavista in Brasile di Dalton Paula, Full-Body Portraits, 2023).
Brett Graham, “Wastelands”, 2024 - Marco Zorzanello/La Biennale di Venezia
La mostra si articola con un ordine quasi museale, spazi non costipati, alternanza di storico e contemporaneo, sollecitazioni a comprendere come la modernità talvolta si manifesti in condizioni coloniali, e in particolare la Modernità del Sud, un tema certo rilevante mentre il sistema e il mercato agivano a Nord-Ovest: come sostiene Pedrosa, i modernismi del Sud del mondo restano in gran parte sconosciuti. Una Biennale, dunque, incentrata sul genio degli anonimi. Pur senza particolari emergenze stilistiche e formali, la Biennale di Pedrosa si schiera in certo modo contro i grandi potentati dell’arte internazionale, ma non realizza un suk terzomondista. Quindi è naturale che si parli di migrazioni e di decolonizzazioni, forse un po’ meno che si debba sempre e comunque perorare la causa queer, in senso molto allargato, arrivando a dire che queer può valere come strange (strano). Essere straniero ormai implica questioni di identità, cittadinanza, razza, libertà, ricchezza, genere, sessualità. E dunque si ritrovano artisti queer “in ogni spazio”. In particolare, in alcune opere del libanese Mismar, e in quelle dell’americano Louis Fratino. Può forse sorprendere che nella mostra non sia sottolineato l’elemento religioso dello straniero. Scrisse molti anni fa il gesuita francese Michel De Certeau che il primo straniero oggi, nelle società contemporanee, è Dio, perché si tende a parlarne poco, a farne una esperienza interiore sempre più priva di religiosità e a estrometterne persino il nome.
Rifacendosi a Oswald de Andrade, nel catalogo si mette in campo la categoria dell’“antropofagia” dove, come in certe forme tribali, divorare il nemico significava assumerne forze e virtù. L’aggressività sociale che vediamo nei dipinti del pachistano Salman Toor, è un tema che scopriamo ogni giorno nelle nostre società occidentali, dove la città è terreno di una violenza si allarga, ma questa distorsione di ciò che nelle culture tribali ha qualcosa di animistico, poteva diventare un tema centrale della mostra dando corpo all’idea che tutti siamo ormai stranieri a noi stessi, laddove il vicino è un soggetto da evitare o da colpire; dove le culture, con la trasfusione babelica delle lingue, diventano enclave di mancata comunicazione. Essere stranieri a noi stessi, pur senza negare niente ai risarcimenti culturali necessari: Soyinka scrisse un pungente j’accuse dove chiese che venisse restituito ai popoli africani ciò che gli europei avevano loro rubato, non solo in termini di vita, ma anche di memoria. È un’enorme questione interna all’Occidente che non sa più che cosa essere in rapporto alla sua storia millenaria.
Barbara Sanchez Kane, “Prêt-à-Patria”, 2021 - La Biennale di Venezia
Nel catalogo della Biennale, che ormai ha preso la forma di un doppio volume pieno di saggi e di schede tecniche, decisamente mostruoso nella mole, viene pubblicato un lungo testo del paraguaiano Ticio Escobar del 1996, dove ragiona su cosa fare per togliere l’arte popolare dal vicolo cieco in cui è finita. Domanda più adatta all’analisi storico-sociale che a quella eminentemente estetica. Escobar sostiene che non basta conservare gli oggetti sopravvissuti oppure conservare tecniche e motivi in via di sparizione e tipici di quelle culture: non si tratta di trasformare la cultura popolare in trofei, isolandola dal suo contesto. Pedrosa dunque cerca di cavare dal buco ciò che la modernità occidentale vi ha chiuso, soffoncando i semi di modernità del Sud. Un’opera certo meritoria, ma la domanda resta: la Biennale di Venezia deve fare questo, oppure dovrebbe mostrarci ciò che accade nel mondo “globale” e farci vedere se l’uomo ha ancora una idea adeguata dell’arte? Uno dei problemi che si sono anno dopo anno resi più evidenti nella Biennale è la visione centralistica e limitata del “curatore unico”, mentre un tempo si nominavano commissioni di esperti (artisti e critici) che pure non tradivano la vocazione internazionale della rassegna. Il curatore unico è causa, credo, di molti errori nella scelta dei temi e dei nomi. Ma soprattutto di edizioni monocordi nella rappresentazione dello stato attuale. Un rischio che corre anche Pedrosa, con una Biennale impostata per dimostrare una tesi.