Tra i regali di Natale ricevuti, sono grato a chi mi ha dato il libro che ho letto in solitudine con più piacere, o ad alta voce a figli d’amici e di parenti: le poesie di Robert Louis Stevenson edite da Nutrimenti in un libro che riproduce anche i fregi e le illustrazioni, l’impaginazione dell’edizione originale ottocentesca (con le immagini di Charles Robinson, nella traduzione di Raul Montanari, con una nota di Paolo Mauri, a cura di Filippo Tuena).
Il giardino dei versi è fatto di vere poesie in rima e di brevi divagazioni in versi, non sono racconti ma riflessioni e parentesi in versi pensate per un pubblico di bambini ma anche, si direbbe, nell’intento di far capire ai grandi che l’abbiano dimenticato qual è il territorio vero dell’infanzia. Stevenson ha capito l’infanzia come pochi altri (come solo alcuni grandi 'educatori-poeti', da Pestalozzi a Freud, da Andersen a Collodi, dalla Montessori a Korczak, da Bettelheim al Kubrick di Shining, hanno saputo capire). E l’esempio e la spiegazione di questo «segreto » e di questa comprensione lo troviamo qui, in questo libro, nel modo più evidente.L’autore di
L’isola del tesoro non ha avuto un’infanzia precisamente felice, è sempre stato malaticcio, e non è un caso se è poi morto in giovane età, a soli 44 anni, dopo averci regalato libri bellissimi per adulti (
Il master di Ballantrae o
Il dottor Jekyll e mister Hyde ) e per ragazzi (
Rapito e
Catriona o
Il principe Otto), bensì perfetti anche per lettori adulti. Nel suo giardino dei versi Stevenson ci parla di infanzia, e di bambini, come si diceva un tempo, pre-puberi, come se l’avesse lasciata appena ieri, e sapesse tornarci a suo piacere. I versi che sa pescare da questo tornarci dentro non sono storie, sono descrizioni di momenti di vita dei bambini, di giochi e di sogni, e la particolarità e bellezza dei versi sta in definitiva nella meravigliosa e quasi unica capacità che egli ha di tornare all’infanzia, di scrivere come dall’infanzia, e per l’infanzia reale e per quella a cui noi adulti sappiamo tornare con il suo aiuto di evocatore «da dentro», di mago che combatte il tempo.«Il tempo è una stagione», dice al momento di congedarsi dai suoi lettori. E parla ai bambini di ora - ai lettori o ascoltatori dei suoi testi: 'anche tu, attraverso le finestre/ di questo libro mio, potrai vedere/ lontano, lontano, un altro bambino/ che gioca felice in un altro giardino./ Ma è inutile che bussi alla finestra,/ e chiami quel bambino: non ti sente./ È tutto concentrato sul suo gioco,/ del mondo intorno gli interessa poco». Noi possiamo tornare, con la guida di Stevenson, al territorio dell’infanzia, ma i bambini veri possono non sentirci e ignorarci, ché hanno il loro, di mondo, una realtà da cui noi siamo comunque esclusi, ma che le virtù rabdomantiche di Stevenson ci aiutano a riscoprire. E a capir meglio.Viene da attribuire questa capacità dello scrittore proprio alla malattia, e a quella sorta di sensibilità che nasce da una mancanza. Spesso è il letto il luogo di dove si dipartono i sogni e le fantasie del poeta, e questo non è a caso. Fantasia e sogno non hanno poco in comune. Il sogno è il viaggio nell’altrove più esotico («là dove nascono le mele d’oro,/ dove sotto un altro cielo/ galleggia l’isola del tesoro», tra pirati e pericoli, nel sole e nel mare) oppure nelle vicinanze immediate, l’orto e il giardino di casa, la soffitta e la cantina, la luce o le ombre di una comune dimora dove bensì si può scorrazzare ed esplorare non diversamente che nell’altrove, grazie alla vivezza dell’immaginazione.È la trasfigurazione del reale la chiave giusta per entrare nella dimensione della poesia, e la capacità di trasfigurare è il segreto dell’infanzia, appartiene all’infanzia e a quel che di essa sanno conservare gli artisti. Un fila di sedie rovesciate diventa un treno, un bastone una spada, dei cubetti di legno sul pavimento una città, l’orto una giungla, la soffitta un pianeta di alieni. Sono infinite le occasioni in cui il meraviglioso si fa normale, e in cui il normale si fa meraviglioso. Per non parlare degli invisibili compagni di gioco di cui il bambino sa dotarsi per reagire alla solitudine, delle storie che sa raccontarsi nell’immobilità forzata e nel silenzio. La fantasia è inesauribile ma anche la realtà sembra esserlo.In una delle poesie di congedo,
A un bambino che si chiama come me, l’autore si rivolge a un piccolo Luis Sanchez d’altra nazione ed evoca una Londra «metropoli immensa» in cui già s’incontrano Oriente e Occidente. Si parla spesso di «bimbi d’altri paesi», e l’entusiasmo per la vita e per la scoperta delle sue varietà porta all’esaltazione di un mondo «così pieno di cose,/ che per me/ dobbiamo essere tutti/ felici come re». Tutto è avventura nell’infanzia, e tutto dovrebbe esserlo nella vita, e se l’isola del tesoro è l’infanzia, è a quell’isola che dovremmo tutti tendere, è quella l’isola che dovremmo cercare, per trovarvi il tesoro di una maturità che si rifiuti di tradire l’infanzia.