Più che un’invettiva contro le malefatte dell’amministrazione Nixon, l’ultimo film di Steven Spielberg, The Post, in arrivo nelle sale l’1° febbraio, è una appassionante celebrazione della libertà di stampa, garantita negli Usa dal primo emendamento della Costituzione. Ambientato nel 1971, mentre tanti ragazzi americani venivano massacrati in Vietnam, il film è la storia di come il “Washington Post” decise di pubblicare una relazione top secret, stilata nel 1967 dall’allora Segretario della Difesa Robert McNamara, che rivelava le tante ed enormi bugie raccontate agli americani sulla sanguinosa guerra in Vietnam da ben quattro amministrazioni, da Truman a Eisenhower, fino a Kennedy e Johnson. I Pentagon Papers – così erano chiamati gli scottanti documenti – dimostravano gravi violazioni della Convenzione di Ginevra, elezioni truccate e la certezza della débâcle americana in Vietnam. Rubate da Daniel Ellsberg, brillante analista militare, e consegnati a un giornalista del “New York Times”, quelle preziose carte occuparono per tre giorni la prima pagina del più importante quotidiano statunitense prima che Nixon intervenisse per bloccarne la pubblicazione in nome della sicurezza nazionale. La palla passò dunque al “Washington Post” diretto dall’ambiziosissimo Ben Bradlee. Ma per agire quest’ultimo aveva bisogno dell’approvazione dell’editore, e qui entra in campo ancora un’altra storia, quella di Katharine Graham, che alla morte del padre e del marito aveva ereditato la testata. Catapultata in un mondo di uomini, in una redazione composta elusivamente da maschi bianchi, la donna imparò il coraggio di rischiare tutto, mandando per aria potenti amicizie e infischiandone delle minacce.
Il film è dunque anche la storia della prima donna alla guida del “Washington Post”, che dopo una vita trascorsa ad accudire figli e organizzare party scoprì di avere un ruolo ben diverso da quello che aveva sempre immaginato per se stessa. Il risultato di quell’inchiesta fu anche quello di spianare la strada allo scandalo Watergate, che scoppiò l’anno successivo trascinando via Nixon. Il film, che unisce per la prima volta sul set Meryl Streep e Tom Hanks, due icone del cinema mondiale (si sono conosciuti solo sul set) è stato presentato ieri a Milano, alla presenza dei due protagonisti e del regista, che hanno sfilato sul tappeto rosso del cinema Odeon. Noi li abbiamo incontrati all’hotel Four Seasons e il discorso ha subito imboccato una direzione precisa: la scelta di raccontare questa storia oggi non è certo casuale. «La libertà di stampa – risponde Spielberg – consente ai giornalisti di essere i guardiani della democrazia. Nel 1971, quando Nixon cercò di negare il diritto di pubblicare i Penthagon Papers, fu necessario l’intervento della Corte Suprema per ristabilirlo. Fu un atto inaudito, non accadeva dai tempi della Guerra Civile, ma oggi, ancora una volta, la libertà di stampa viene minacciata e la storia di questo film diventa drammaticamente attuale». In Usa The Post ha avuto un enorme sostegno da parte della stampa. «I giornalisti americani devono respingere ogni giorno gli attacchi dell’amministrazione, combattere contro la disinformazione e le accuse di divulgare fake news ogni volta che i loro articoli non piacciono al Presidente».
Ma il cuore del film risiede, secondo il regista, nel personaggio di Katherine Graham, una donna che in un momento assai cruciale della storia americana riuscì a trovare la propria voce. «I diritti della la prima versione della sceneggiatura – interviene la Streep – sono stati acquistati da Amy Pascal sei giorni prima delle elezioni presidenziali del 2016. Tutti pensavamo che sarebbe stato un film nostalgico sul passato, che avrebbe dimostrato quanta strada hanno fatto da allora le donne, al punto da sedere anche nello Studio Ovale. Pensavamo che Hilary Clinton sarebbe diventata Presidente. Poi ci sono state le elezioni e gli attacchi alle donne sono piovuti proprio dal vertice del nostro governo. Il film è diventato allora una riflessione su quanta strada ancora non abbiamo fatto. La Graham ha imparato ad avere coraggio, e noi non lo insegniamo abbastanza alle nostre ragazze». E a proposito del movimento Time is Up contro le molestie sessuali, aggiunge: «Non so perché abbiamo aspettato tanto, ma l’aria è cambiata e grazie al coinvolgimento di Hollywood molte altre donne avranno il coraggio di parlare, nelle industrie e nella politica, negli ospedali, nei ristoranti e nell’esercito».
Sull’eterna battaglia dei sessi, Spielberg commenta: «Le donne hanno spesso dimostrato di poter rompere gli stampi dentro i quali gli uomini le costringevano. Durante la Seconda Guerra Mondiale, mentre i mariti erano al fronte, le mogli capitanavano industrie e cantieri, ma alla fine del conflitto la loro leadership non è stata riconosciuta e sono tornate in cucina. Tocca agli uomini avere un atteggiamento diverso e spero che il film sia di ispirazione per tante donne che vogliono dire la loro». Ed Hanks, da poco anche in edicola con il suo libro di racconti Tipi non comuni (Bompiani), conclude parlando del suo coraggioso direttore. «Bradlee era un uomo molto competitivo, una bestia determinato a mettere le mani non su una storia qualunque, ma “la” storia. Nel 1971, quando il suo giornale era solo il secondo della città di Washington, osò sfidare il colosso “New York Times”, che non lo faceva dormire la notte, e poi il presidente degli Stati Uniti d’America ». Intanto l’agenzia di intelligence libanese ha vietato la proiezione nelle del film per conformarsi a una risoluzione della Lega degli Stati arabi di boicottare Spielberg per avere donato un milione di dollari allo Stato ebraico durante la guerra tra l’esercito.
Esce il 1° febbraio in Italia “The post” l’ultimo, atteso film del regista, con Meryl Streep e Tom Hanks. Una storia dei tempi di Nixon, con lo sguardo all'America di Trump
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