mercoledì 21 settembre 2016
RUINI La palestra di speranza in ciò che verrà dopo
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Per un sacerdote la morte è particolarmente di casa. Ho un forte ricordo dei funerali di giovani, che ho celebrato soprattutto nel periodo in cui ero vescovo ausiliare a Reggio Emilia. Molti anni dopo, la Messa per i caduti di Nassiriya mi ha coinvolto in maniera profonda. Ma non si tratta solo di celebrazioni liturgiche. È molto difficile trovare parole sensate quando si fa visita a un ammalato che sa di essere in pericolo di vita o, peggio, di non avere speranze.

Talvolta è ancora più difficile confortare chi ha perduto una persona cara, soprattutto un figlio. Ho avuto però anche esperienze molto diverse, nelle quali è stato l’ammalato stesso, o un parente stretto, a venirmi in aiuto con la forza della sua fede e del suo abbandono nelle mani di Dio. Racconto un solo caso, il più singolare e in certo senso il più fortuito, che mi è accaduto tanti anni fa, prima di diventare vescovo.

Nel pomeriggio di una domenica stavo percorrendo con la mia auto una strada collinare a sud di Reggio Emilia e davanti a me procedeva una moto di grossa cilindrata. Improvvisamente e in maniera che non so spiegarmi – la velocità non era certo elevata – il pilota ha perduto il controllo, è caduto e la moto gli è finita addosso. L’ho raggiunto subito e con me varie altre persone che si trovavano a passare di lì.

Purtroppo era già morto, avrà avuto una trentina d’anni. Gli ho dato comunque l’assoluzione e anche l’unzione degli infermi, poi i presenti, alcuni dei quali, a differenza di me, lo conoscevano personalmente, hanno posto il problema di avvertire i parenti, cioè la madre, vedova, e il fratello. Come sacerdote, è toccato a me. Mi hanno accompagnato a una piccola casa di campagna ed è venuta ad aprirmi la madre di quel giovane. Ho preso il discorso un po’ alla larga ma la donna ha capito subito e mi ha posto una domanda diretta, alla quale ho dovuto rispondere affermativamente. La donna ha taciuto per qualche istante, mentre il suo viso era stravolto dalla sofferenza.

Poi ha detto semplicemente: «La Madonna ha sofferto di più». Le parole sono state esattamente queste, le sento ancora dentro di me. Nonostante queste esperienze, numerose e in alcuni casi molto forti, devo riconoscere che la morte è rimasta assai a lungo fuori dal mio orizzonte, almeno nel senso che non è riuscita a penetrare nel mio vissuto più intimo. Certo, ero ben consapevole e convinto che essa riguardava anche me, anzi, la morte e l’incontro finale con Dio sono stati, fin dagli anni in cui ero seminarista, oggetto della mia preghiera.

Non riuscivo però a pensare concretamente di dover morire, e di poter morire in qualsiasi momento. […] Una malattia seria e prolungata può incidere di più, rendendoci capaci di uno sguardo più essenziale e di un certo distacco. L’ho constatato spesso in persone amiche, o seguendo come sacerdote qualche ammalato. Ma ho avuto anche un’esperienza più diretta quando sono stato operato al cuore. L’età avanzata e il pensionamento, invece, su di me non hanno influito molto, forse perché, pur cambiando genere di attività, ho continuato a lavorare piuttosto intensamente. 

 Un vero cambiamento l’ho sperimentato solo quando, in questi ultimi anni, ho dovuto prendere atto di un declino fisico progressivo e senza ritorno. Vari gesti e comportamenti della vita quotidiana, abitudini che erano care, a un certo punto diventano faticose, difficili o anche impossibili: appartengono dunque al passato o sono prossime a terminare. In questo modo è diventata concreta in me la consapevolezza che terminerà, più o meno presto, la vita stessa, e il pensiero della morte si è fatto esistenzialmente rilevante. 

 Questa nuova situazione non mi procura certo gioia; al contrario, suscita preoccupazione e qualche rimpianto. Il pensiero della morte incute timore, per il fatto stesso di dover morire oltre che per la coscienza del proprio peccato, soprattutto di non aver veramente donato la propria vita a Dio e al prossimo. Non provo però un senso di rifiuto o di avvilimento, tanto meno di disperazione. Per quel che posso capire, mi aiuta a evitare questi stati d’animo quel po’ di realismo che mi ha accompagnato fin dalla giovinezza. Mi chiedo, infatti, perché mai dovrebbe esserci un’eccezione per me, rispetto alla sorte comune dei mortali. Ma mi sostiene soprattutto il dono – così lo percepisco – della speranza che nasce dalla fede.

Una speranza diversa dalle altre, non cioè un desiderio sospeso nel vuoto, almeno in qualche misura, perché consapevole che alla prova dei fatti potrebbe pur sempre rivelarsi illusorio. La speranza che poggia sulla fede, invece, è quella che ha reso tanti credenti, in ogni epoca e anche nel nostro tempo, capaci di affrontare la morte piuttosto che rinunciare alla fede stessa. Questo è il dono che forse – lo dico con trepidazione e gratitudine – il Signore sta facendo anche a me, non di fronte a una persecuzione ma semplicemente in rapporto al fisiologico avvicinarsi della fine del percorso terreno. Tornando indietro nel tempo, da giovane prete mi sono presto reso conto che la morte e l’aldilà erano argomenti non graditi, che molti rifuggivano o addirittura non sopportavano. Salvo il caso, ovviamente, che la morte stessa imponesse per così dire la sua presenza, verificandosi o proponendosi come imminente. 

 Questo atteggiamento provocava in me una reazione curiosa: mi piaceva introdurre proprio quel discorso, anche nei momenti meno opportuni, come durante un pranzo. Non per sadismo, spero, ma per cercare di rompere un tabù e anche per una vena scherzosa che, sotto la superficie, è largamente presente in me. Ritrovo ora il medesimo tipo di atteggiamento quando, riferendomi alle mie condizioni di salute, osservo che a una certa età gli acciacchi sono inevitabili ed è tempo di prepararsi a morire: la reazione più comune è contraddirmi ed esortarmi ad allontanare certi pensieri. 

La stessa predicazione della Chiesa, che in un passato non lontano aveva nei «novissimi» (la morte e il dopo) un suo cavallo di battaglia, da qualche decennio tende invece a parlarne solo marginalmente, a volte persino in occasione dei funerali. In realtà, però, quando si toccano questi temi, l’attenzione dei presenti si risveglia, come ho sperimentato tante volte facendo l’omelia della domenica, nelle parrocchie romane e prima in quelle di Sassuolo e di Reggio Emilia. Così, parlando un po’ troppo di me stesso, ho indicato i motivi per i quali ho scelto di scrivere un libro su un argomento come questo. Vorrei riflettere con voi lettori sulla nostra vita e sul nostro destino. A mio parere, la bellezza della vita non è sciupata dalla morte, ma piuttosto è portata alla sua conclusione. Vorrei soprattutto aiutare a prendere sul serio la speranza cristiana. Si tratta senza dubbio di un dono, ma ciò non dispensa dal prendere in esame la solidità del suo fondamento.

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