In Oriente la parte nascosta dello specchio è più importante della superficie riflettente che, a Occidente, è alla base del mito di Narciso. E in effetti Narciso è la metafora tuttora pregnante di una scoperta della propria identità, dell’io che si vede come un tu, e ha dunque molteplici "riflessi" sul pensiero, anche contemporaneo, della soggettività e della riconoscibilità di un "altro" che in realtà ci appartiene come necessaria espansione della nostra stessa individualità. L’immagine riflessa è questo io rovesciato che parla a noi stessi come non potremmo mai senza avere uno specchio davanti. Monsieur Teste cade nel dormiveglia e, come in sogno, si vede vedersi, vede se stesso come se fosse un altro. E Rimbaud, giovanissimo, in una sua celebre lettera scrive: «Io è un altro». Ecco, questa ricerca spasmodica di se stessi in un riflesso che può essere lo specchio liquido della superficie lacustre, di una pozzanghera, o lo specchio nero di una superficie oleosa, è tipicamente occidentale; in Oriente, in Cina in particolare, lo specchio non ha questa dimensione narcisistica «se non per ironia o a sostegno di ulteriori simbologie», scrive Marco Guglielminotti Trivel nel catalogo (edito da Silvana) della bella mostra Riflessi d’Oriente che ha curato per il Mao di Torino, dedicata agli specchi in «Cina e dintorni». Lo specchio in Oriente è piuttosto una soglia, una membrana sottile, sulla quale corrono le ombre di elementi divini, di simbologie cosmiche e religiose, di mitologie zoomorfe e poi andromorfe. Ma lo specchio, poiché «dice sempre la verità», ha poteri magici ma è anche la metafora della mente che si allena per spingersi oltre la soglia delle verità apparenti: «esprime pensieri sottili». La mostra illustra questo ampio ventaglio di significati e di "capacità" dello specchio a Oriente, allineando in bacheche centocinquanta pezzi, perlopiù realizzati in leghe di bronzo, dorati o argentati, dipinti o trattati con tecniche elaborate (com’è il caso degli specchi a doppio corpo), decorati con figure o elementi geometrici, che hanno la funzione di guardiani della soglia, cioè sono funzioni apotropaiche o protettive dell’atto stesso di guardare se stessi sulla superficie metallica lucidata, cioè mentre ci si espone al giudizio dello specchio con tutto ciò che comporta nella compenetrazione, che sarà poi una figura della psicoanalisi, tra superficie e profondità. Se la profondità non è altro che la superficie vista dall’altra parte, ecco che specchiarsi significa, come per Alice, addentrarsi in un mondo incognito.
E siccome la soglia è ciò che separa il visibile dall’invisibile nell’antica Persia gli specchi appesi a parete venivano tenuti coperti da un panno perché si temeva che le entità soprannaturali potessero uscire dallo specchio o risucchiare dentro questo spazio "infero" quelli che vi si riflettevano. Questa mostra ha una impostazione e anche un allestimento tipico da museo archeologico; con un chiaro e utile supporto didascalico che accompagna le singole sezioni espositive, offre tutte le informazioni necessarie all’osservatore per seguire lo sviluppo delle tipologie iconografiche, rispetto alle quali il profano si aggrappa all’immediatezza percettiva delle varianti stilistiche delle diverse decorazioni per cogliere uno sviluppo che, peraltro, segue ritmi temporali quasi geologici. Si parla, qui, dello specchio senza manico, dotato di bottone centrale forato per far passare il filo con cui veniva tenuto nella mano di chi si specchiava oppure, più anticamente, veniva legato al corpo degli sciamani durante i loro rituali: rotondo (soltanto raramente e nel primo periodo di sviluppo compare in forma quadrata con angoli sagomati, oppure in epoca più recente in forme lobate), leggermente convesso nella faccia riflettente e concavo con lavorazioni a sbalzo di elementi scultorei (in genere, raffigurazioni molto stilizzate di draghi e animali mitici come la fenice, uccelli e insetti, oppure elementi astrali e zodiacali, nuvole e demoni, fiori e motivi fitomorfi, animali reali o fantastici come i draghi). Come osserva Trivel, la rotondità quasi esclusiva degli specchi prodotti lungo i secoli in Cina è un elemento formale che conferma la funzione magico-rituale dello specchio, tanto più che la circolarità si concilia meglio con elementi mitico-simbolici originari come il sole, la luna e la volta celeste. Peraltro, la rotondità e la convessità erano più adeguate anche nel restituire un’immagine tridimensionale del volto riflesso sulla superficie. È con l’affermazione del taoismo, durante la dinastia Han (al passaggio fra l’epoca antica e l’era cristiana), che lo specchio vive una più larga diffusione. Lo specchio cattura la luce, ha un rapporto strettissimo con le simbologie lunari, con l’alchimia e la lavorazione dei metalli, e in alcune fonti antiche è ritenuto capace, se esposto durante la notte, di raccogliere l’"acqua di luna" o "rugiada lunare" la specialissima manna di cui si nutrivano gli immortali "uomini piuma". Anche il legame col sole è molto forte, ed esiste una iconografia legata al simbolismo del lampo. Per questa capacità di catturare la luce, gli specchi erano collocati nelle tombe perché illuminassero la vita del defunto nel suo viaggio agli inferi e per questo stesso potere venivano anche appesi all’esterno degli edifici per rischiarare gli ambienti circostanti. Infine, una tipologia assai curiosa e ancora oggi non del tutto spiegata sotto il profilo tecnico, è quella degli "specchi trasparenti" «la cui faccia riflettente - spiega Trivel - esposta a una fonte di luce diretta ha la proprietà di proiettare su una superficie piana lo stesso motivo e le stesse iscrizioni che si trovano sul retro del manufatto».
È soltanto il caso di aggiungere che, in realtà, il mito di Narciso e quello della soglia ultraterrena, sia pure da universi differenti, combaciano perfettamente nelle due facce dello specchio, e fanno di questo utensile uno degli strumenti più fascinosi d’interfaccia simbolico tra visibile e invisibile.Torino, Museo d’arte orientaleRiflessi d’OrienteFino al 24 febbraio