Una scena del film di Omar Naim, «The final cut» (Usa, 2004) con Robin Williams
Cosa succede al mio account Facebook se muoio? Potrebbe sembrare una domanda come un’altra, fatta tra amici quasi per scherzo, tuttavia questa possibilità rientra tra le policy del social network. Fa riflettere che si possa superare un tabù culturale costruito sulla rimozione del lutto, attraverso la mediazione dello schermo. Al tempo stesso la domanda va anche incontro a un’esigenza dettata dai numeri: secondo eMarketer, piattaforma che si occupa di ricerche in ambito digital, Facebook sta perdendo appeal tra i più giovani, incrementando però i suoi iscritti tra gli over 55. Secondo alcuni dati del 2013 sono più di 30 milioni i profili di persone decedute che popolano i social, e alcune proiezioni indicano la fine di questo secolo come il momento in cui gli utenti deceduti supereranno i vivi, contribuendo così alla creazione di un enorme cimitero digitale.
A partire da questo spunto lo scorso anno è uscito per Utet Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto, eternità e oblio nell’era dei social network (pagine 272, euro 15,00) di Giovanni Ziccardi, professore di Informatica giuridica all’Università di Milano: «L’idea è nata sentendo un annuncio che parlava di sorpasso dei profili defunti sui social rispetto ai vivi – racconta Ziccardi – Mi colpì il fatto che una società come la nostra, con poca natalità, si replicasse in qualche modo sul digitale, così iniziai a studiare il fenomeno da un punto di vista normativo. Gli Stati Uniti erano molto avanti, già 30 Stati avevano un progetto di legge sul patrimonio digitale. In Italia e in Europa c’era ben poco, se non il Consiglio Nazionale del Notariato in Italia, con lo studio di un protocollo per gestire il patrimonio online. Da lì sono partito, analizzando le piattaforme, per poi passare alle app che cercano l’immortalità delle persone defunte, ricreando persino il loro modo di dialogare ».
La terza parte del libro parla di oblio. Della morte, dei dati e di come sia più semplice la morte organica, anche per incapacità tecnica o scarsa consapevolezza del mezzo, rispetto alla morte digitale. Il web in effetti ha cambiato il modo di vivere sessualità, linguaggio e affettività, ragion per cui non poteva restarne fuori la morte, con le declinazioni legate all’elaborazione del lutto e al rapporto che ci lega a esso. Il rapporto con la morte, però, non è cambiato solo da un punto di vista relativo alla consapevolezza, ma da un punto di vista filosofico, che riguarda concetti quali memoria, lutto e immortalità nell’epoca della cultura digitale, non a caso argomenti a sottotitolo di un altro libro, uscito quest’anno per Bollati Boringhieri: La morte si fa social (pagine 149, euro 16,50), scritto da Davide Sisto, filosofo, esperto di tanatologia e professore al Master “Death Studies & the End of Life” all’Università di Padova. Anche l’esperienza di Sisto nasce da una sorta di pietra d’inciampo.
Così l’incipit del libro: «La mattina del 14 novembre 2014, acceso lo smartphone, ricevo una notifica da Facebook, la quale mi ricorda di fare gli auguri di compleanno al mio amico Alessandro. […] Tutto nella norma, non fosse che Alessandro è morto durante l’estate precedente ». Una presa di coscienza improvvisa, inaspettata, che riduce in qualche modo il confine tra prima e dopo, tra chi resta e chi non c’è più, tra vita online e offline: «È stato un inciampo casuale, che si è inserito all’interno di una mia professionalità – spiega Sisto –. La cosa che ho cercato di far emergere è il non cadere nel tranello di dire che oggi ci sono solo situazioni di novità estrema, mostrando quindi esempi che si leghino a qualcosa che già si faceva in passato: guardare le foto dei defunti, parlare con loro, sono pratiche che caratterizzano l’umanità da sempre, la novità sta nel fatto che la presenza di questi profili è talmente invasiva in qualsiasi istante della giornata che il rapporto con il caro estinto può diventare problematico. Una volta si doveva cercare la foto nel cassetto, le lettere conservate in un posto in cui era difficile che saltassero fuori all’improvviso, ora in un momento in cui si sta guardando l’elenco dei contatti, il passato può riemergere di colpo: conversazioni, note audio, video, foto».
Viene da chiedersi se questo processo porti a un avvicinamento alla morte più emotivo e partecipato, oppure si limiti a seguire un’onda, una corsa a entrare nei trending topics, che va dalle condoglianze online fatte a persone più o meno celebri, pur di partecipare al cordoglio collettivo, fino a veri e propri cerimoniali social: «Da una parte – continua Sisto – siamo talmente disabituati a pensare alla morte che questi strumenti ci mettono di fronte alla morte e alla mortalità, quindi lo scrivere le condoglianze pubblicamente tende a rompere un tabù e un senso di imbarazzo che si manifesta invece con la realtà esterna, dove spesso non si sa bene cosa dire o come comportarsi, ma c’è anche un aspetto più superficiale, una forma di partecipazione senza reale concentrazione sul significato del gesto. La morte tocca l’emotività, è un argomento delicato, che crea nelle persone la voglia di partecipare, essere coinvolti, perché fa sentire meglio offrire un’immagine migliore agli altri: può diventare quindi anche una forma di narcisismo».
Per non semplificare o banalizzare, Sisto spiega che bisognerebbe cercare di riportare il discorso della morte a un livello pedagogico, per educare tanto all’uso delle tecnologie digitali quanto alla consapevolezza: «Lo schermo aiuta, perché spesso le persone terminali nella realtà offline sono chiuse in una bolla e capita provino imbarazzo. Lo schermo dà protezione e porta a tirare fuori l’esperienza, parlarne, partecipare». C’è però anche un approccio più pratico, trattato nel libro di Ziccardi, che fa quasi da decalogo, galateo di questioni legate alla morte in ambito digitale, su come comportarsi riguardo al lutto in rete e alla protezione dei dati, anche in casi di morte di minori o eventuali furti d’identità: «Non c’è consapevolezza, si tende a condividere tutto, ma le piattaforme stanno cercando di pensare al dopo. Si è diluito radicalmente il rapporto tra pubblico e privato nel considerare la morte – spiega Ziccardi –.
Rispetto al concetto tradizionale ora abbiamo la morte in tasca, teniamo profili di persone che non ci sono più, perché cancellarli sembra brutto. Ora la morte è continua, è diventata pop, c’è possibilità di vederla in qualsiasi momento, perché è online, esibita e condivisa. Così, come su internet finisce l’immagine del piatto, della vacanza, del matrimonio, finisce anche quella del funerale». Dissacrante forse, ma anche nuovo microcosmo, in cui il confine tra online e offline è sempre meno definito.