Le sue poesie – sintomo di come la parola poetica non sia ancora morta – sono tradotte in 40 lingue. Numerosi i premi da lui ottenuti, tra i quali l’Ordine al Merito di Norvegia, l’Ordine di Isabella di Spagna e della Stella Polare in Svezia. Come intellettuale ha “importato” Federico García Lorca nel suo Paese, traducendone diverse poesie. Knuts Skujenieks, nato nel 1936 a Riga, è uno dei più importanti intellettuali in Lettonia. Come tanti della sua generazione, ha vissuto l’esperienza del gulag: arrestato nel 1962 per “attività antisovietica”, dovette scontare 7 anni di carcere. Durante i quali, però, non perse il gusto della letteratura e della scrittura poetica, continuando a comporre. Il perché del suo arresto e della sua detenzione lo spiegò così nel 1996 in un incontro del Pen International a Praga: «Non ero un classico dissidente, e neanche un attivo anticomunista. Piuttosto un liberale, cosa che nella Lettonia neostalinista degli anni sessanta era particolarmente indesiderabile». In occasione del suo secondo libro di poesie pubblicato in italiano, da poco pubblicato da una casa editrice veneziana –
Un seme nella neve. Poesie e lettere dal gulag (Damocle edizioni, pagine 174, euro 12,00; il primo era stato
Venuto da un altro mondo, Joker) – gli abbiamo posto alcune domande sul lascito del suo periodo nel gulag e il futuro della poesia.
«Nel campo di concentramento dovevo salvaguardare la mia libertà interiore. Ci sono riuscito con la poesia». È un passaggio di un suo intervento passato dedicato al rapporto tra letteratura e prigionia. Questa sembra un’affermazione opposta a quella di Theodor Adorno, secondo il quale fare poesia dopo Auschwitz sia diventato impossibile. Per lei è stato possibile continuare a fare il poeta dopo un’esperienza terribile come il gulag. Come mai? «Capisco Theodor Adorno, ma non posso essere d’accordo con lui. L’Europa orientale e quella centrale nel XX secolo hanno sofferto una doppia occupazione, comunista e nazista. In tutti quegli anni la poesia ha rappresentato un sostegno spirituale per quei popoli. La poesia era un’arma nella lotta contro il regime sovietico. Nei Paesi baltici la letteratura ha sempre avuto un solido fondamento nel folclore, manteneva forti radici popolari».
Nelle poesie che compongono Un seme nella neve sembrano alternarsi il male dell’uomo e la calma della natura, come se solo nell’ambiente naturale e non in quello umano lei potesse trovare conforto. Nel gulag ha trovato esperienze di incontri umani che l’hanno aperta all’intuizione poetica? «Non era solo la natura a poter salvaguardare l’equilibrio delle persone. Nel gulag ho trovato compagni fedeli, con cui ancora oggi mantengo contatti. Nel campo di concentramento ho composto numerose canzoni di protesta, che cantiamo ancora oggi. Fisicamente ero piuttosto debole e i miei compagni mi hanno aiutato nei duri lavori del campo».
Lei descrive l’esperienza del totalitarismo come «il sedersi sull’anima» da parte del potere politico. In che modo il comunismo sovietico si è «seduto sull’anima » russa, che ha creato l’ortodossia, Tolstoj, Dostoevskij e molto altro? «La transizione da un paese fondato sulla religione ortodossa al regime comunista in realtà non fu così complessa. Nel 1917 l’80% dei cittadini russi erano analfabeti. Il sistema sovietico era come una parodia nei confronti dell’impero zarista, ma i contenuti religiosi in un modo o in un altro furono salvaguardati: la felicità per gli uomini di tutto il mondo, un futuro luminoso... Il simbolismo della religione ortodossa è stato per così dire scimmiottato dai simboli del bolscevismo».
In Italia di tanto in tanto emerge il dibattito se e perché la poesia sia finita. Vedendo i suoi riscontri (i suoi versi sono tradotti in decine di lingue) sembrerebbe di no. Come vede la questione? Sono gli “ultimi giorni” della poesia oppure questa forma d’arte resisterà anche alla velocità del progresso tecnologico? «A mio parere la poesia non decade, cambia solo la propria funzione e i propri lettori. La poesia sviluppa e rafforza la propria lingua madre. È possibile che oggi nutra le emozioni di un minor numero di persone rispetto al passato, e che cambino i gusti. Ma ci sarà sempre bisogno della poesia, così come della musica. La poesia ha poco a che fare con il progresso».
Durante il periodo nel gulag lei leggeva e scriveva. Quali sono stati gli autori che più l’hanno accompagnata durante la detenzione? «Sì, è vero, nel gulag ho letto molto. C’è in particolare un libro che riassumeva molto bene e con forza il lento ritmo della vita nel campo di concentramento: si tratta de
La montagna incantata di Thomas Mann. Nel campo ne leggevo due pagine al giorno, come per assecondare quella lenta cadenza con cui scorreva il tempo».