venerdì 13 maggio 2016
COMMENTA E CONDIVIDI
Avolte stupisce incontrare in poco più di novanta pagine il senso di una filosofia. Se poi consideriamo che queste paginette sono state pubblicate inizialmente come articoli di giornale nel 1896 da una figura come quella del sociologo e filosofo tedesco Georg Simmel, allora lo stupore si trasforma in interesse. Simmel, la cui influenza nella cultura filosofica europea del Novecento non potrà mai essere sopravvalutata, spiega il significato della filosofia kantiana ai lettori del supplemento domenicale del “Vossischer Zeitung”, quotidiano di Berlino che ebbe tra i suoi redattori anche Lessing e Fontane. Il titolo originale, Was ist uns Kant?, riecheggia, credo volutamente, la celebre risposta kantiana alla domanda Was ist Aufklärung?”, cos’è l’Illuminismo?, del 1784. Lo stile tra i due saggi è, infatti, molto simile, trattandosi di una risposta a domande di grande momento, nel caso di Kant, e di manifestazione di un partecipato interesse, consolidato successivamente in lezioni e libri, meritevole di essere consegnato al pubblico colto, nel caso di Simmel. Se per Kant l’entusiasmo per le nuove idee si condensava in un rinnovato slancio della ragione, da riportare casomai ai suoi limiti, per Simmel il presente da cui muove la domanda intorno a Kant è decisamente meno ottimista: si tratta del «consunto scetticismo del nostro tempo [...] che ruota in un circolo marcescente». In altre parole, Kant può servire a superare l’incertezza morale della modernità? Cosa ne sapeva Kant meglio dei suoi e forse degli stessi contemporanei di Simmel? Era consapevole che la «profonda nostalgia di felicità che il Medioevo mistico religioso aveva in boccio e che il Rinascimento sognò con pienezza nei suoi momenti più alti, mai più raggiunti, sospinge l’uomo moderno come qualcosa che è saputo concettualmente, con una bramosia sempre più acuta a ogni nuovo livello raggiunto ». È il suo dramma, quando non la sua tragedia, quello cioè di aver tolto all’azione morale ed etica il supporto fornito dalla speranza di una ricompensa felice che verrà conseguita presto o tardi, non importa, indifferentemente qui o nell’aldilà. Se è questa la condizione morale moderna che Kant preconizza in base alla frattura insanabile tra «ciò che si vuole» e «ciò che si deve», fatto che libera e realizza l’autonomia degli impulsi dell’individuo, allora non c’è dubbio che tra felicità e moralità esiste un dissidio incomponibile. A meno che, e qui le cose diventano ancora più ingarbugliate, non si supponga «una vita soprasensibile in cui l’anima possa trovare quella compiutezza che qui le era negata». Inutile dire che il problema è tutto, ma già fin troppo, qui: se l’idea kantiana di Dio è solo l’oggetto di una fede pratica che orienta la nostra vita come se ci fosse ma a prescindere dal fatto che ci sia effettivamente o, al contrario, il fatto di orientarci nel mondo eticamente è un’attestazione stessa della sua esistenza. In fondo l’affermazione di Voltaire, richiamata da Simmel, secondo la quale se Dio non ci fosse occorrerebbe inventarlo non è certo quell’attestazione di ragionevole speranza che ci si attenderebbe dal maggiore degli illuministi francese. Dove Kant, secondo Simmel, lo segue non è detto lo debba seguire chi crede che il significato della vita non sia il semplice riflesso del nostro volere e del nostro fare. Vigila sul contesto di questi articoli Francesco Valagussa. © RIPRODUZIONE RISERVATA Georg Simmel COS’È PER NOI KANT? Castelvecchi. Pagine 90. Euro 13,50
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: