Una scena dal "Signore degli Anelli" di Peter Jackson - 2001 - New Line Productions, Inc.
L’Anello è distrutto e il Nemico sconfitto. Il Grande Pericolo è passato. Tutto finito? Non esattamente, stando a quel che dice Gandalf ad Aragorn: “La Terza Era del mondo è terminata, e la nuova era ha avuto inizio; e ordinare il suo inizio e preservare quel che può essere preservato è il tuo compito. Perché anche se molto è stato salvato, molto ora deve scomparire”. E poi, ogni viaggio che si rispetti inizia e si conclude in un punto ben preciso: la soglia di casa. Quando i nostri quattro hobbit compiranno il loro viaggio di ritorno scopriranno, con orrore, che quando tutto sembrava alle spalle, violenza e morte sono arrivate persino nella loro amata Contea.
Peter Jackson non lo ha raccontato nella sua versione cinematografica del Signore degli Anelli, probabilmente perché non voleva rovinare il crescendo finale e ha preferito una conclusione più rassicurante. Invece ci sarà ancora uno scontro. Basterà la battaglia di Bywater (Lungacque) per porre fine alla Guerra? “Non la chiamerò fine, finché non abbiamo messo a posto questo caos. E richiederà molto tempo e lavoro”, dice Sam. E anche quando la vita sembrerà tornare alla normalità, ci sarà ancora qualcosa che non quadra. I meriti di Frodo non sono riconosciuti come dovrebbero dalla gente della Contea, almeno per come la vede Sam. Ma, soprattutto, Frodo deve ancora fare i conti con le vecchie ferite, e questo lo porterà per sempre lontano dalla sua terra. Un altro viaggio, un altro addio.
Ma quand’è che le cose torneranno davvero a posto? Ce lo chiediamo anche noi, ora che il rischio del contagio pare diminuito e siamo usciti a gustare un ultimo scampolo di una primavera che pareva ormai perduta. Consapevoli, però, che non bisogna abbassare la guardia e che forse niente sarà esattamente “come prima”. E quante sfide davanti, da una quotidianità da reinventare alle questioni economiche, lavorative, sociali...
Ma siamo sicuri che “prima” tutto fosse al suo posto? Eppure non era, evidentemente, il migliore dei mondi possibili. Allora forse il punto è un altro e magari, mentre attendiamo di ritrovare almeno una parvenza d’ordine esteriore, il nostro Tolkien ha ancora qualche spunto da offrire. I suoi personaggi sono passati attraverso il Grande Pericolo cercando di difendere il loro mondo, ma nel frattempo hanno iniziato a mettere ordine prima di tutto dentro se stessi.
L’ultimo esempio è quello della magnifica Éowyn, che a lungo ha coltivato sogni di gloria e battaglie, ma poi cambia idea. O meglio, scopre che i suoi desideri profondi sono altri. Questa consapevolezza matura passando attraverso il dolore e accogliendo una nuova speranza, che ha il volto nobile di Faramir. Nel tempo trascorso insieme nelle Case di Guarigione, Éowyn comprende che non le interessa provare il suo valore sul campo di battaglia, dove la salvezza o la morte sembrano solo un gioco che ai suoi occhi ormai non ha più alcun fascino: “Mi trovo a Minas Anor [antico nome di Minas Tirith], la Torre del Sole, ed ecco! l’Ombra si è allontanata! non sarò più una guerriera, non rivaleggerò più con i grandi Cavalieri, né troverò più diletto solamente nei canti di guerra. Sarò una guaritrice, e amerò tutte le cose che crescono e non sono aride”. Allora Faramir potrà finalmente proclamare: “Ecco la Dama Éowyn di Rohan, e ora è guarita”.
Per tanti che rimettono ordine c’è almeno un personaggio, Saruman, che ha scelto liberamente la via del male e si ostina a non abbandonarla, nonostante gli sia stata offerta più di una possibilità di redimersi. È stato proprio lui a violare la Contea, a portare l’ombra dell’odio e della violenza in quella terra quasi immacolata, perché caos esteriore e disordine interiore sono sempre strettamente correlati. Se Gandalf, Barbalbero e Frodo hanno usato misericordia nei suoi confronti, è perché credono che non gli sia preclusa la possibilità di un pentimento. Ma Saruman non cede. Quando viene sconfitto per l’ultima volta, Frodo interviene perché venga risparmiato, ma questo gesto di misericordia manda lo stregone su tutte le furie: “Sì, sei cresciuto molto. Sei saggio, e crudele. Hai privato di dolcezza la mia vendetta, e ora devo andarmene di qui con amarezza, debitore nei confronti della tua misericordia. Lo odio e odio te!”.
Davanti alla pietà generosa, l’anima corrotta di Saruman può solo vomitare odio. Ma di quello stesso odio Saruman sarà vittima poco dopo, sgozzato da Grima Vermilinguo, esasperato dalle menzogne dello stregone, che fino all’ultimo ha cercato di fargli credere che non ci fosse salvezza neanche per lui, gravato dal peso dei troppi crimini commessi.
Ha ragione Sam, ci vorranno “molto tempo e lavoro” per rimediare ai danni fatti da Saruman. È dunque infinitamente rimandato il tempo di una felicità piena? Cosa dà senso alle imprese degli eroi di Tolkien e cosa li sostiene, mentre un ordine più o meno accettabile tarda a tornare nel mondo? Ancora una volta, ad aiutarci a rispondere è proprio il buon Sam che, come abbiamo già ricordato, nei momenti più bui è capace di custodire una luce. Nel libro, Sam non pronuncia le parole “C’è del buono in questo mondo...” – forse le più celebri dell’intera trilogia di Jackson – ma in ogni caso non ha perso mai di vista ciò che conta davvero, neanche nell’oscurità di Mordor, quando le speranze di successo scarseggiavano.
Esattamente come scarseggiava l’acqua, che lui e Frodo avevano provato a razionare per troppi giorni. Proprio la sete riporta alla memoria di Sam il ricordo delle acque fresche del lago di Lungacque, dove era stato con i fratelli Cotton e Rosie, la hobbit dei suoi sogni. Sam immagina scene precise, frammenti di passato, ma, forse senza rendersene conto, sta dando ascolto a un’altra sete, alla sete di buono e di bello, alla sete di assoluto. E di lì, col ragionamento tipico di Sam – un percorso a ostacoli fra propositi generosi e dubbi laceranti che abbiamo ormai imparato a conoscere – si arriva allo slancio di quel “Non posso portare [l’Anello] per voi – e questo lo dice anche il Sam di Tolkien – ma posso portare voi e l’Anello insieme”. Un’intuizione decisiva per l’esito positivo della missione. Pur afflitto da una necessità, Sam non se ne lascia schiacciare e ascolta una voce più autentica e forte, che gli ricorda che non tutto finisce con le tenebre di Mordor, che quella oscurità non li opprimerà per sempre. Si può guardare oltre le circostanze più cupe, più in alto. O, se preferite, nel profondo.
Anche il nostro breve viaggio di quarantena termina allora dov’era iniziato, con l’“evasione del prigioniero” con cui Tolkien difendeva il valore del mito. “Non c’è firmamento, / solo un vuoto, se non una tenda di gioielli / tessuta di mito, con elfici motivi; e non c’è terra, / se non il grembo della madre da cui tutto è nato”. Sono alcuni versi di Mythopoeia (“Creazione del mito”), un’opera meno nota del nostro autore, in cui si esalta proprio la capacità del mito di mostrare una verità più alta dietro l’apparenza. Ed è questa ricerca, allora, a dare un senso. Mentre fuori infuria il disordine, lo sguardo "mitico”, che contempla oltre e salva dall’aridità del vuoto, è l’unico sguardo capace di abbracciare la realtà nella sua interezza, comprendendo anche ciò che sfugge a un osservatore superficiale.
Saremo mai capaci del coraggio e dell’onestà di una visione simile per immaginare un futuro che non sia solamente una brutta copia di ciò che è già stato? Perché il mito “è un'invenzione riguardo la verità” e ci ricorda di cercare l’assoluto anche nel quotidiano. E allora non poteva esserci una conclusione migliore per un’avventura così epica come quella della Guerra dell’Anello. Una scena che nella sua semplicità spiazzante ha una dimensione universale: il ritorno – ancora un ritorno, e forse non l’ultimo – di un uomo (anzi, uno hobbit!) a casa, dalla moglie e dalla figlia, con queste poche parole che seguono un profondo sospiro: “Be', sono tornato”.
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