venerdì 29 novembre 2024
Lo strano, l’enigmatico o il miracoloso irrompono nel reale dei personaggi, sono modi per resistenti per superare le avversità del vivere quotidiano
Ritratto giovanile di Mircea Eliade

Ritratto giovanile di Mircea Eliade - WikiCommons

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Pubblichiamo un estratto da Racconti fantastici II di Mircea Eliade. A cura di Horia Corneliu Cicortaș e Igor Tavilla, Castelvecchi editore (© 2024 Lit edizioni)

«L’avrò vista una decina d’anni fa» continuò Hrisanti, l’avrò vista intorno al 1920-22 quando cantava al Floarea Soarelui! No, non è possibile che tu la conosca. Era una taverna da quattro soldi, nascosta in strada Popa Soare, ma aveva anche un ristorante all’aperto, e ogni estate Leana veniva a cantare lì. Così la chiamavo, e così piaceva anche a lei esser chiamata: Leana. Ma non dimenticava mai di aggiungere: « Non mi chiamo così. Per mia disgrazia sono finita a cantare nelle taverne, e la gente mi chiama Leana. Ma non ero fatta per questo. E talvolta poteva capitare che ti prendesse il bicchiere e lo portasse alle labbra, e talvolta bevesse da lì. Dico poteva capitare perché lo faceva assai raramente, solo se le piacevi, se vedeva che eri giovane, e se ti trovava bello o malinconico e sognante. Sfiorava appena il bicchiere con le labbra, ma non c’era nessuno del suo tavolo o dei tavoli vicini che non la seguisse avidamente, mangiandosela con gli occhi, perché, come faccio a dirtelo, quando Leana toccava il bicchiere tutto il viso le si illuminava di un sorriso inimitabile e inimmaginabile. Non poteva essere paragonato a niente, non somigliava a niente – né al sorriso delle donne più belle né a quello dei bambini, né al sorriso degli angeli. Sì. Il suo sorriso non somigliava a niente, quando avvicinava il bicchiere alle labbra con gli occhi fissi in quelli del ragazzo. E dico di proposito “ragazzo” perché non credo di averla mai vista prendere il bicchiere a nessun giovane che avesse più di vent’anni. A quel tempo, intorno al 1920-22, Leana sembrava avere circa venticinque anni, forse un anno o due in più».

«Pressappoco quanti sembra averne anche stasera » lo interruppe Cladova. «Sì, non è cambiata molto. Dopotutto dieci anni, a questa età, specialmente per una donna come lei, non contano molto… In ogni caso» riprese dopo aver riempito i bicchieri «chi non l’ha vista allora non la conosce. Non ha visto il suo vero sorriso, voglio dire. Perché infatti Leana sorride sempre, e sorride in tanti modi: quando tace, quando ti guarda negli occhi e ti ascolta, persino quando canta le sue canzoni più tristi… Ma avevo cominciato a parlarti del Floarea Soarelui perché allora Leana cantava accompagnandosi col violino. Sì, con un violino, che reggeva in maniera strana, come non ho mai visto fare a nessun altro, lo appoggiava a volte sul seno, a volte sulla coscia, a volte sembrava che lo tenesse per aria, ma in quel caso si accontentava di vibrare l’archetto sulle ultime corde. In realtà non so nemmeno se fosse un violino come tutti gli altri. Per quanto ne sapessi, mi sembrava che i suoni fossero più simili a quelli di un violoncello. Eppure era un violino piccolo, ma sembrava avere corde diverse, dai suoni bassi, gravi, malinconici. È soprattutto questo che l’ha resa subito famosa al Floarea Soarelui – la sua malinconia, la malinconia delle sue canzoni. Non so dove né da chi le avesse imparate, perché erano canzoni antiche che nessuno conosceva. Ma non era solo questo, il fatto che conoscesse canzoni e ballate così vecchie e melodie arcaiche: le creava ex novo, le cantava come bisognava cantarle affinché piacessero a noi, giovani di allora, nel dopoguerra».

«Peccato» disse Cladova con aria assente, senza guardarlo. «Peccato che abbia rinunciato al violino. Mi sarebbe piaciuto vederla anch’io…». « Ma c’era anche dell’altro. Era il suo fascino, quella malinconia così discreta, quasi incomprensibile. Ti chiedevi: da dove è venuta questa Leana, da quale ambiente? Nessuno sapeva dove vivesse, né se avesse o no famiglia; non si sapeva perché sparisse così inaspettatamente, e non si facesse vedere al Floarea Soarelui per settimane, e nemmeno perché tornasse». Enache, il padrone, ne sapeva poco quanto noi. O forse faceva solo finta di non sapere. Tutte le volte che questi o quelli glielo chiedevano, ripeteva la stessa storia: che un bel giorno se l’era trovata davanti, mentre lui, Enache, si accingeva a sistemare i tavoli fuori, perché la sera si preannunciava calda, e Leana gli chiese il permesso di cantare, aggiungendo subito che non voleva neanche un soldo e che non sarebbe passata a fare la questua tra i tavoli. « Ho di che vivere » gli disse. « Ma se le farà piacere, mi lasci venire qui la sera, perché questo è il mio destino. Per mia disgrazia, sono destinata a cantare nelle taverne». « Per sua disgrazia» ripeté Cladova, sognante.

«Chissà cos’avrà voluto dire con questo…». «Rispondeva così quando glielo chiedeva: che questo era il destino che le era stato assegnato, cantare nelle taverne». «Senza farsi pagare…». « Diceva che aveva di che vivere… e quanti cercavano di corteggiarla, quanti ragazzi di periferia, ufficiali, ricchi mercanti cercavano, in tutte le maniere, di sedurla, trattenendosi alle volte molto tempo dopo che se n’era andato l’ultimo cliente, per aspettarla. Sapevano che non avrebbe dormito al Floarea Soarelui. Immaginavano che dovesse tornare a casa e l’aspettavano. Ma l’aspettavano invano. Quelle sere, come se avesse avuto una premonizione, Leana se ne andava prima, scompariva senza che nessuno se ne accorgesse. Forse l’aspettava una carrozza in una delle strade vicine, e scompariva. Perché nessuno di tutti quelli che avevano messo gli occhi su di lei e che, a volte, vedendo che non tornava al locale, si mettevano a cercarla per le strade, nessuno era mai riuscito a trovarla Leana…».

«Aveva sicuramente qualcuno. Oppure era innamorata». «Così diceva anche lei quando uno di noi le confessava, magari più per scherzo ma forse anche seriamente, di essere innamorato di lei. «Sono innamorata da molto tempo» diceva. « Da quando mi conosco sono innamorata. Dello stesso» ripeteva ridendo, se qualcuno di noi le faceva una domanda indiscreta». « E non l’avete mai visto?» lo interruppe Cladova, divenuto a un tratto curioso. «Voglio dire, non veniva anche lui là, il giovane di cui Leana era innamorata, non veniva ad ascoltarla?… O magari era là, al Floarea Soarelui, e non siete riusciti a identificarlo…». « Non c’era» riprese Hrisanti dopo una pausa, sorridendo. « Non era né al Floarea Soarelui né da nessun’altra parte. Questo almeno è quello che confessava Leana e, per quanto strano possa sembrare, le credevamo. “Per mia disgrazia” diceva “non lo conosco ancora, eppure so chi è e lo amo. Lo amo da molto, e non posso più amare un altro”».

Le dodici narrazioni inedite di “Racconti fantastici II”

Simone Paliaga

Dodici narrazioni inedite compongo “Racconti fantastici II”, che ruotano tutti attorno all’intricato rapporto tra religioso e profano L’idea di “spettacolo” come liberazione spirituale Lo strano, l’enigmatico o il miracoloso irrompono nel reale dei personaggi, sono modi per resistenti per superare le avversità del vivere quotidiano «Alle quattro e mezzo?» ripeté Adrian, strofinandosi la fronte. « In effetti perché alle quattro e mezzo? Ci dev’essere una risposta. Ma per trovarla devo innanzitutto identificare l’altro, colui che sta dietro il messaggero. Capite a cosa mi riferisco » aggiunse, rivolgendosi alle sue vicine. « Per usare il linguaggio della teologia – e preciso che la seguo solo come linguaggio, perché a parte ciò la teologia mi è indifferente, e forse addirittura inaccessibile –, per usare il linguaggio della teologia né il messaggio né il suo portatore, il messaggero, possono salvarti. Il messaggero ti desta solamente, ti prepara a decifrare il senso personale della rivelazione che sta per manifestarsi a te…». Così Mircea Eliade, forse il più grande storico delle religioni del Novecento e candidato al Nobel come scrittore, illustra l’intreccio tra mito e realtà e sacro e profano, suo principale oggetto di studio, questa volta non nei suoi lavori accademici bensì nel racconto lungo, risalente al 1977. Alla corte di Dioniso, di cui si pubblica qui a fianco un estratto per gentile concessione dell’editore. Questa novella insieme a I fossi, Ivan, Uniformi da generale, In incognito a Buchenwald... e Les trois Grâces sono gli inediti che compaiono nel secondo volume dei suoi Racconti fantastici (pagine 780, euro 35,00), che esce oggi per Castelvecchi, a cura di Horia Corneliu Cicorta e Igor Tavilla e con un’ampia introduzione di Sorin Alexandrescu. Si completa, così, con questo secondo volume e le sue dodici narrazioni, che comprendono anche Strada Mântuleasa, La mantella, Giovinezza senza giovinezza..., Diciannove rose, Dayan e All’ombra di un giglio..., la pubblicazione delle fatiche di Eliade riconducibili alla letteratura, per la prima volta disponibile in lingua italiana nella sua interezza. Alla corte di Dioniso recupera il mito di Orfeo e Euridice, ma invertendo le parti. Non sarà Orfeo a cercare Euridice, ma è Leana che cerca Adrian. Il racconto di Eliade prevede due piani narrativi. Il primo si avvale della conversazione tra due personaggi, Hrisanti e Cladova, che inseguono il destino della cantante di nome Leana, che nelle taverne di Bucarest, innalza arcane e antiche melodie d’amore. Ma la sua vita è segnata da «uno shock, una specie di trauma» che le impedisce di coltivare il suo talento musicale, condannandola a lavorare in locali popolari e non all’altezza del suo talento. Leana sta cercando il suo amato, Adrian, anche se non sa chi sia. « Non lo conosco ancora, eppure so chi è e lo amo. Lo amo da molto, e non posso più amare un altro», confessa. Adrian è un poeta, un poeta che non si ritrovarsi nel mondo, una volta sfumati i confini tra sacro e profano. Egli rincorre un appuntamento alla ricerca di un messaggio ma l’esperienza è spaesante per i protagonisti e il lettore. Per un fraintendimento o una interpretazione inconciliabile degli eventi, il poeta incontra una persona che promette di affidargli un segreto che riguarda l’intera umanità. In una sorta di commedia degli equivoci nessuno capisce chi cerca chi e cosa. «Gliel’ho detto perché: perché l’incontro avrebbe reso possibile la trasmissione di un messaggio» confessa al misterioso Orlando. In questo racconto, c’è tutto Eliade. L’amore come forma di conoscenza, il mito e l’illud tempus che irrompe nella storia. « Ma questo è successo tanto tempo fa, è stato all’inizio. All’inizio dell’inizio. E nessuno ha capito. Non hanno capito - dice Adrian - che il poema era scritto all’insegna di Orfeo, che parlava di Dioniso, e là annunciavo la beatitudine senza nome, quando saremo tutti vicini a lui, accanto a lui, alla sua corte, dell’imperatore, alla corte del dio». E poi ancora il tema dello shock o dell’amnesia che spezzano il tetto della casa, aprendo il varco che conduce dal tempo profano al tempo sacro. E poi la vita stessa, se si dispone dello sguardo adatto, diventa l’Axis mundi da cui scalare il cielo. Mircea Eliade, ancora una volta, in un’altra forma rispetto al saggio, porta il lettore sulle tracce del sacro. Come un rabdomante, rivela il camuffamento dei miti negli eventi della realtà immediata nella quale il fantastico diventa naturale, tanto da essere confuso con il reale stesso.

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