giovedì 13 marzo 2025
Parla lo scrittore che in esilio ha trovato un’altra lingua, l’olandese: «L’ho imparato per ritrovare il potere che mio padre sordomuto credeva che avessi»
Lo scrittore Kader Abdolah, ospite al festival Dedica di Pordenone

Lo scrittore Kader Abdolah, ospite al festival Dedica di Pordenone - Dedica

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Cuore pulsante di Dedica, festival che mantiene la sua unicità a livello internazionale grazie alla cifra dell’approfondimento di un unico autore, è la letteratura, intesa come chiave per esplorare nuovi mondi e superare confini, nella convinzione che solo attraverso la conoscenza e il dialogo si possano abbattere le barriere culturali. Presupposti cui Kader Abdolah – autore, in Italia pubblicato da Iperborea, capace di intrecciare passato e presente, realtà e immaginazione, con opere in grado di costruire ponti – risponde benissimo. Ne abbiamo parlato con lui, in un momento storico in cui le questioni geopolitiche e i diritti umani in Iran sono più che mai attuali, partendo da tre concetti chiave nel suo modo di interpretare il mondo: esilio, memoria e identità. « Non sapevo cosa fosse l’esilio – ha detto Abdolah – era una cosa assolutamente nuova per me. Ma ora lo capisco. Esilio significa essere tagliati fuori dalle proprie radici. È come essere tagliati fuori da mio padre sordomuto, che non ha mai capito, e non ha mai potuto capire, perché non sono mai tornato a casa. Memoria sono i ricordi, un’immensa miniera di eventi passati, una fonte preziosa e inesauribile per la letteratura. Infine, identità: quando ero a casa, pensavo di conoscermi. Pensavo: “So chi sono”. Ma quando ho cambiato lingua nella scrittura, ho cambiato anche la mia identità e sono diventato me stesso: Kader Abdolah».

Lei ha fatto della libertà di espressione e del dialogo tra culture il fulcro della sua narrativa. In un mondo sempre più polarizzato politicamente, che spazio c’è per la libertà di espressione e il dialogo?

«La libertà di parola è uno dei diritti umani più essenziali. In effetti, mai come in questo periodo storico, stiamo iniziando a comprenderne il vero valore. Un esempio chiave di ciò, nel nostro tempo, è il modo in cui i movimenti populisti si confrontano con la libertà di parola. Usano i loro diritti per esprimersi, e credo abbiano il diritto di farlo. La libertà di parola non è selettiva; si applica a tutti, anche a coloro le cui opinioni potrebbero essere controverse o discutibili. In questo modo, la libertà di parola non si limita a tollerare le opinioni opposte, ma incoraggia un dialogo migliore, in cui le idee vengono perfezionate nel mercato del pensiero. La libertà di parola è libertà per tutti».

Le sue opere si sono sempre distinte per la capacità di creare un ponte in grado di abbattere stereotipi e promuovere la comprensione reciproca. Cos’è per lei la letteratura?

«È ciò che il mio corpo mi dà per scrivere, ciò a cui lavoro mentre cammino, vado in bicicletta o dormo. È ciò che mi rende felice quando mi sveglio. Dico questo perché credo che siamo nati per sperimentare la felicità in questo magico universo. Questo è possibile quando siamo liberi di parlare, possiamo portare il pane a casa, siamo onesti con noi stessi e facciamo del nostro meglio nel tempo che ci viene concesso».

In Scrittura cuneiforme (Iperborea) uno dei temi sono le radici. Quanto è importante conoscere la “Grande Storia”?

«Il più delle volte le persone dimenticano di non essere completamente indipendenti, di non essere solo “io” e “me”. Ognuno di noi è come un ramo di un albero molto antico con radici profonde. Se non conosciamo le nostre radici, la nostra storia più grande, non possiamo svilupparci veramente. Per esempio, so che nel mio albero genealogico ci sono stati molti scrittori prima di me, e ora sono uno di loro. E tocca a me fare qualcosa di nuovo».

Lei ha scritto: «Sono un esule, e un esule ha sempre bisogno di una luce alla fine del tunnel». Qual è la sua luce?

«Prima non conoscevo l’esilio e non sapevo nulla di quella luce alla fine del tunnel. Ora so cos’è: l’esilio dà la possibilità di ricominciare da capo».

La vita di un esule è governata anche dalla paura.

«La paura la conosco. È necessaria, una forza potente che aiuta a fare meglio le cose o impedisce di farne altre. Conosco la paura, ma non ne ho paura».

Ne Il Messaggero (Iperborea) – appena uscito in nuova edizione – lei racconta la complessità di un’avventura umana, religiosa e politica. Qual è il suo rapporto con la fede?

Non sono religioso nel senso tradizionale del termine, ma credo che la religione sia una delle più belle creazioni dell’umanità. Come scrittore di narrativa ho una grande ammirazione per la Bibbia, la Torah e il Corano. Gli autori di queste opere hanno intrecciato storie che hanno aiutato l’umanità a trovare un equilibrio e a dare un senso alla vita. Quando ero bambino, sono cresciuto in una famiglia di persone religiose, e la loro influenza ha plasmato ciò che sono oggi. Quando corro, spesso mi fermo in un luogo tranquillo, chino la testa verso il cielo, l’universo e la magia che ci unisce tutti. E mormoro: “Oh, sei potente! Sei bello!”».

Cosa si prova a scrivere in una lingua diversa dalla propria?

«Ho iniziato a scrivere in olandese perché tutte le altre vie mi erano precluse. Come scrittore iraniano, avevo perso il mio pubblico, le mie parole. Avevo 33 anni, provenivo da una famiglia culturalmente ricca ed ero qualcuno, ma all’improvviso non ero più nessuno. Mio padre era sordo e muto e io ero il suo interprete. Credeva che fossi un uomo potente, capace di ottenere qualsiasi cosa. Ero il suo mondo, ma poi, improvvisamente, non ero nessuno. Ho iniziato a studiare l’olandese per recuperare quel potere che mio padre credeva che avessi, per tornare a essere l’uomo che lui credeva che fossi».

Che cos’è “casa” per Kader Abdolah?

«Casa è il luogo in cui vivevi con i tuoi genitori, dove parlavi la tua lingua con i tuoi vicini. Quando sono fuggito dal mio Paese, quella casa è diventata molto grande nella mia immaginazione; è diventata la “casa” di cui si parla sempre in letteratura. Quella casa occupava la mia mente. Ma con l’avanzare dell’età e con il prolungarsi della mia permanenza in esilio, la situazione è cambiata. L’immagine che avevo in testa era sbagliata. Perché dopo un po’ di tempo, tuo padre, tua madre, i tuoi vicini, gli alberi della tua casa – persino l’edificio della tua “casa” – muoiono tutti. E non rimane nulla della tua casa. Che cos’è allora la casa? Ora lo so. La casa è costituita dai classici che i maestri della lingua hanno creato nel corso dei secoli. Casa sono i capolavori che con la lingua sono stati realizzati. Se fossi italiano, ad esempio, Dante farebbe parte della mia casa. In parole povere: la lingua e ciò che è stato creato con essa è casa».

L'autore al centro del Festival Dedica

Esilio, memoria, identità: seguendo questi temi universali, fili sottili che tessono le trame della letteratura e della vita, da sabato 15 a sabato 22 marzo, il festival Dedica di Pordenone inviterà il pubblico a esplorare l’opera di Kader Abdolah, protagonista di questa edizione. Lo scrittore iraniano-olandese, segnato da un’esperienza di esilio, ha infatti fatto della libertà di espressione e del dialogo fra culture il cuore della sua narrazione, e sarà al centro degli undici appuntamenti in programma. Lungo il percorso si susseguiranno incontri, spettacoli, proiezioni, mostre. Con Abdolah interverranno ospiti internaziona-li, tra i quali il pianista Ramin Bahrami e il fotoreporter di guerra, vincitore del World Press Photo, Manoocher Deghati, autore della mostra Eyewitness: Iran. Inaugurazione sabato alle 16.30 nel Teatro Giuseppe Verdi, con un intervento del critico letterario e saggista Alessandro Zaccuri. Seguirà la consegna del Sigillo della Città ad Abdolah.



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