domenica 1 dicembre 2024
Un libro uscito in Germania indaga sui rapporti del leader nazionalsocialista con i giornalisti, in particolare anglofoni: loro volevano lo scoop, lui visibilità (e soldi)
Adolf Hitler durante un discorso a Norimberga nel 1935

Adolf Hitler durante un discorso a Norimberga nel 1935 - Alamy Stock Photo

COMMENTA E CONDIVIDI

Adolf Hitler non amava i giornalisti, in particolare i corrispondenti esteri, ma se ne serviva per propagandare le sue idee. L’americano John Gunther nel 1936 - pur giudicandolo un rozzo urlatore, inferiore come oratore rispetto a Goebbels - aveva sottolineato come si fosse arrampicato fino al potere assoluto a furia di discorsi. Nella sua strategia, però, non c’erano solo piazze, birrerie e, poi, folle oceaniche. C’erano i media. I giornalisti stranieri, soprattutto a stelle e strisce, a loro volta lo cercavano per esibirlo come trofeo nella logica dello scoop. Da questo doppio, ambiguo, legame sono arrivate ai posteri oltre cento interviste, suddivise in tre periodi della carriera del demagogo: dai primordi al fallito Putsch del 1923 e alla prigionia al Landsberg, quando il “Mussolini bavarese” si faceva pagare per finanziare il suo partito, l’Nsdap; poi dal 1930 al 1932, quando il successo elettorale - con la conseguente prospettiva della presa del potere - fece aumentare le richieste di un colloquio e mise il boccino in mano a Hitler; il terzo riguarda l’oramai affermato uomo di governo e di guerra.

Su questo aspetto importante per la storia del giornalismo, e per la storia tout court, esce ora in Germania un accurato saggio scritto da Lutz Hachmeister, giornalista, documentarista e storico dei mass media: Hitlers Interviews. Der Diktator und die Journalisten (Kiepenheuer & Witsch, pagine 386, euro 28,00). L’autore, che è scomparso in agosto a 65 anni e non ha purtroppo potuto vedere la sua fatica sugli scaffali delle librerie, ha setacciato in modo certosino le interviste al demagogo apparse sui giornali esteri: 60, oltre la metà, sono con la stampa angloamericana, pur considerata al servizio del giudaismo, 17 con quella italiana, 9 con quella francese, le altre con giornalisti iberici, ungheresi, polacchi, danesi, svedesi, egiziani e giapponesi. Rare invece le interviste con i media tedeschi. I giornali democratici di Weimar, infatti, non avevano alcun interesse per la figura di quello che vedevano come un politicante da strapazzo. Il quale a sua volta li disprezzava, disponendo oltretutto di un giornale tutto suo, il “Völkischer Beobachter”, al quale affidare le tirate propagandistiche, che rimasero indisturbate dopo la cancellazione della stampa libera.

Dei dialoghi con i giornali di tutto il mondo non esistono registrazioni e neppure resoconti stenografici, ma solo i prodotti finali inchiostrati nelle pagine dell’epoca, che l’intervistato voleva oltretutto sempre rivedere. Materiali, dunque, da prendere con le molle e non utili a capire le modalità con cui Hitler si interfacciava con gli interlocutori. E i reali contenuti dei colloqui. Questo almeno fino al 1923. Poi la situazione delle fonti migliora, grazie alla corrispondenza di accompagnamento, agli archivi e alle versioni autorizzate. L’autore ha inoltre vagliato gli studi sull’argomento e le memorie dei protagonisti dell’epoca: i giornalisti che ebbero accesso a Hitler e chi li filtrava, Ernst Sedgewick Hanfstaengl, detto “Putzi”, il responsabile per la stampa estera del regime. Di madre americana, questi era un personaggio di alto rango che aveva studiato ad Harvard. Il suo ex compagno di studi H.V. Kaltenborn era uno dei giornalisti americani più in vista dell’epoca. A lui e a Louis Lochner, corrispondente dell’Associated press, fu concesso di intervistare Hitler nella sua casa al Berghof. Nelle sue memorie Kaltenborn ricostruisce minuziosamente l’incontro avvenuto in un caldo mattino di agosto del 1932 su una veranda con tanto di canarini cinguettanti in gabbia e affaccio sull’idillico paesaggio alpino. «Hitler non aveva particolare simpatia per i rappresentanti della stampa estera e ci salutò in modo fugace e ostile». Il Führer inizia a parlare concentrato su di sé , come se fosse davanti a una folla. Il tono dell’intervista si capisce subito, quando il futuro dittatore si mostra irritato alla prima domanda di Kaltenborn: «Perché lei non distingue nel suo antisemitismo gli ebrei che sono arrivati in massa in Germania dopo la guerra (la prima ndr) e le molte buone famiglie ebraiche che sono tedesche da generazioni?». «Tutti gli ebrei sono stranieri», la risposta a brutto muso a cui Hitler fa seguire una reprimenda su come il giornalista potesse permettersi tale domanda quando l’America selezionava gli ingressi in base a censo, forma fisica e moralità. All’insaputa dei due cronisti quel giorno al Berghof c’era anche Karl von Wiegand, rappresentante del gruppo Hearst, colosso mediatico a stelle e strisce. Questi aveva avuto un faccia a faccia privato di un quarto d’ora con il leader nazista. E alla fine aveva concluso con i colleghi: «Quest’uomo è un caso disperato. Diventa sempre peggio ogni volta che lo vedo. Non sono riuscito a ricavarne niente. Quando gli fai una domanda, lui tiene un discorso. Questo incontro è stato solo una perdita di tempo».

I difficili rapporti di Hitler con la stampa anglofona sono pieni di aneddoti che Hachmeister ricostruisce anche partire dalle memorie di “Putzi”. Era sempre in ritardo e scortese. Con John Cudahy di “Time-Life”, l’ultimo a intervistarlo nel 1941, rimase a lungo occhi negli occhi in un atteggiamento di sfida. Oppure si lamentò per l’odore del whisky che la reporter Dorothy Thompson (veterana dei corrispondenti in Germania e autrice del volume I saw Hitler) aveva bevuto per tirarsi su prima dell’intervista. Naturalmente il fanatico della razza preferiva i cronisti americani di origine tedesca, intuibile sin dal cognome. Ma bastava che questo suonasse tedesco. Insomma non un partner facile. Eppure di tempo con lui i cronisti ne spesero molto. Ad esempio, uno dei più famosi suoi intervistatori, il 21enne Randolph Churchill, figlio di Winston, nel 1932 lo seguì in tutto il tour elettorale della Germania per il “Sunday Graphic”. Anche se, come detto, fare domande era praticamente impossibile, a molti ciò non importava, si presentavano impreparati sulla sua figura, ricorrendo al repertorio macchiettistico dell’imbonitore di provincia o del pittore dilettante. E spesso si accontentavano di farlo parlare a ruota libera. Non ci voleva grande sforzo. Merito del libro è quello di svelare i meccanismi del rapporto tra stampa e potere . Che gli autocrati di tutti i tempi cercano di piegare ai loro scopi.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI