domenica 13 ottobre 2019
L'eremo sull’Aspromonte. «La fede è un dono di Dio per tutti. Il problema è accorgersi di quella fiammella che è in ognuno... Le persone chiedono alla Chiesa la strada per la verità»
Padre Ernesto Monteleone

Padre Ernesto Monteleone

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«Io prego. Per me la cosa più importante è pregare. Prego perché la misericordia di Dio raggiunga le persone inquiete. Prego per i più bisognosi di misericordia. Prego per le tante persone che salgono fin qui e chiedono preghiere. Pregare alla notte è bellissimo. Il silenzio consente di cogliere l’essenziale. La Parola che risuona nella solitudine apre al dialogo con Dio... Noi pensiamo di salvarci secondo i nostri schemi, invece chissà che sorpresa avremo alla fine dei tempi, quando vedremo quello che è davvero». Se ascolti padre Ernesto Monteleone, con la sua voce flebile e il suo sorriso gentile, che solo appena riesce a mascherare un quasi ingenuo pudore, ti sembra di afferrare il senso vero del monachesimo, della vita donata e affidata interamente a Dio. Vive al santuario di San Nicodemo di Mammola, su un piccolo altipiano a 700 metri, nel mezzo di un anfiteatro di montagne impervie e boscose che costituiscono quell’area dell’Aspromonte conosciuta come la Limina. Il santuario sorge sui resti di quello che era l’eremo di San Nicodemo, databili intorno al mille. Terra di animali al pascolo e di ’ndrangheta. Arrivare fin qui non è come a metà degli anni ’90 quando padre Ernesto, sacerdote dal 1967 e poi parroco in alcune località della diocesi di Locri-Gerace, dopo essersi consultato con l’allora vescovo Giancarlo Bregantini scelse di dedicarsi alla vita eremitica. Non troppo lontano è stato costruito un agriturismo e le strade non sono più così inaccessibili. Da queste parti, però, la notte è ancora notte, la neve quando cade isola dal mondo e il silenzio sa essere ancora totale. Eppure quasi ogni giorno c’è gente che sale e con pazienza siede nella piccola chiesa e attende che padre Ernesto, conclusa la Messa o la preghiera, dedichi loro ascolto.

Cosa cercano queste persone?

Conforto. Vengono per parlare dei loro problemi, dei loro dolori. Del lavoro che non c’è. Le persone partono da queste situazioni, non sanno a chi rivolgersi e vanno a cercare, forse non sanno nemmeno cosa. Vivono la fede in questo modo, spesso in maniera superficiale. Chiedono ascolto e preghiere, non cercano approfondimento spirituale, ma Nostro Signore è Dio per tutti, anche per loro.

Lei cosa offre?

Li accolgo, li ascolto, assicuro la mia preghiera e sanno che lo faccio davvero. Secondo le situazioni cerco di spiegare che per la loro vita è necessario avere un rapporto con Dio per sentirlo vicino. Che si può cercare il suo amore che non tradisce, che possiamo aprire a Lui il nostro cuore. E la confidenza con Dio genera serenità.

Chiedono sacramenti?

Tanti vengono per confessarsi, anche sacerdoti e suore. Molte persone raccontano che nelle parrocchie è sempre più difficile trovare un confessore che li ascolti con pazienza. Non si sentono ascoltati né capiti. La gente ha grande sete della confessione, questa è la mia esperienza e se la Chiesa non è aperta al peccatore a chi porta la salvezza? Le persone hanno i loro problemi e hanno necessità di raccontarli. Problemi piccoli, problemi complessi. E ritornano. I santuari come questo sono cliniche spirituali e la gente desidera guarire.

Viene da pensare che da queste parti vengano anche persone con storie pesanti...

Vengono anche a svuotare fardelli pesantissimi.

E quelli che non credono?

Dicono che sono in ricerca e che non riescono ad avere fede. Ma la fede è un dono di Dio per tutti. Non c’è chi cerca e non trova. Il problema è accorgersi di quella fiammella che è in ognuno e che dobbiamo tenere viva. Spesso nelle nostre parrocchie ci limitiamo a dire le verità delle fede, ma le persone hanno bisogno di sentirle nel cuore. E questo non lo trovano perché manchiamo di autenticità.

Quale è la strada che insegna a queste persone?

Li invito a pregare. Prenditi due minuti e fai una chiacchierata col Signore. Racconta la tua giornata a Gesù, le tue difficoltà, le tue gioie. È così che scopri la fiammella che hai nel cuore. La fede è come una qualunque amicizia: un’amicizia con Gesù che va nutrita. E se prendi confidenza non puoi farne a meno. Non ti basta il telefonino. Vuoi parlargli a tu per tu, abbracciarlo. Allora c’è la Messa alla domenica. Non si va alla Messa alla domenica perché lo ha detto la mamma o il parroco: vai perché Gesù è tuo amico e lì fai esperienza di Lui. Quanta responsabilità nei sacerdoti che celebrano...!

Cosa manca a questa Chiesa per giungere a queste persone?

Non sono in grado di dire quello che manca alla Chiesa. Penso semplicemente che serva umiltà, umanità, accogliere le persone sentendole per quello che sono: esseri umani già redenti da Gesù. Poi credo che si debba recuperare la sacralità. Dobbiamo vivere credibilmente la sacralità anche nei suoi segni esteriori. Le persone hanno bisogno di questi segni e che siano credibili e creduti. Hanno bisogno di sacramenti, cercano i sacramenti, hanno bisogno di benedizioni, hanno bisogno di un abbraccio autentico capace di generare accoglienza.

Non si muove mai dall’eremo?

Quando nel 1995 monsignor Bregantini approvò, con qualche correzione, la Regola ispirata a quella Benedettina che gli avevo proposto per la mia vita eremitica, mi chiese di andare a confessare al santuario della Madonna di Polsi nelle settimane che preparano la festa locale. Così ogni anno ad agosto vado lì per svolgere questo compito. Nelle festività di Natale e di Pasqua sono accolto dai certosini a Serra San Bruno. Con loro ho un ottimo rapporto da quando all’inizio della mia vita eremitica ho trascorso due mesi al monastero di Serra per imparare come organizzare i tempi della mia spiritualità.

Come ha scoperto la sua vocazione per l’eremo?

Prima di rivolgermi al vescovo Bregantini nel ’94, facevo il parroco e cercavo di farlo al meglio, ma sentivo il richiamo di donarmi a Dio in una vita nascosta. Quando Bregantini capì che era davvero la mia vocazione mi invitò a fare una prova. E sono rimasto.

Come organizza la sua giornata fra queste montagne?

I primi anni qui sono stati molto duri. Non c’era elettricità e ho dovuto mettere a posto tante cose. Per il resto la mia giornata è organizzata nella logica dell’ora et labora. Mi sveglio alle sei. La prima preghiera è dedicata alla vergine nella mia cella con la recita di un vero e proprio Ufficio dedicato alla Madonna. Poi vado in chiesa per le Lodi. Alle 7.30 celebro la Messa (alla domenica alle 10.30). Alle 9 recito l’Ora terza. Alle 11,45 la Sesta. Alle 12 mangio. Alle 15 l’Ora nona. Alle 18,30 i Vespri. Faccio una parca cena e fra le 20 e le 21 tengo acceso il cellulare per la gente che vuole parlarmi e per gli appuntamenti. Torno in chiesa per la Compieta. Poi nella cella una nuova preghiera alla Madonna. Alle 11,30 mi sveglio e vado in chiesa per l’Ufficio delle letture fino all’una... Tutto questo sempre cantando in gregoriano, nel cuore o con la voce. Uscendo dalla sua cella, sul retro dell’eremo, padre Ernesto indica l’orto «che con gli anni che passano non è più quello di prima», la legna per la stufa «perché mi scaldo solo con quella». Ricorda di un vescovo che di tanto in tanto saliva da lui per celebrare insieme, pregare e condividere il pranzo o la cena. Intanto al cancello arriva una macchina e qualcuno entra a piedi, saluta. Padre Ernesto sorride. Indica la solitudine delle montagne intorno e, sottolinea: «Quando viene la neve qui è bellissimo...».

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