L'ultimo romanzo pubblicato da Iris Hanika (
Ciò che è proprio, Droschl, Vienna, pagine 176, euro 19,00) affronta con coraggio il tema della memoria della Shoah proprio nell’anno in cui il Consiglio Centrale Ebraico tedesco festeggia i sessant’anni dalla propria fondazione. Sia detto subito: a tema non c’è la negazione del genocidio e neppure il suo ridimensionamento. E del resto la scrittrice di Würzburg, già collaboratrice della
Frankfurter Allgemeine Zeitung, figura anche tra gli autori del gruppo Suhrkamp-Insel, il principale punto di riferimento della cultura ebraico-tedesca e questo stesso libro ha ricevuto favorevoli recensioni sulla stessa
Faz e sugli altri principali organi di stampa tedeschi («intelligentemente provocatorio», l’ha definito Rainer Moritz su
Welt). La storia di Graziela e Hans, i due protagonisti del romanzo, più che dall’amore è condizionata e corrosa da una «necessità concreta», quella di essere costretti a porre tutto ciò che accade loro, nel bene e nel male, in relazione con Auschwitz. Se si trova nella metropolitana strapiena lui si consola pensando che nei treni usati per le deportazioni si stava ancor più stretti, quando si corica nel suo comodo letto pensa ai tavolacci dei prigionieri nei campi di concentramento. Lei invece si sente in colpa perché il padre era stato soldato sul fronte orientale e di certo aveva contribuito a creare i presupposti per il genocidio ebraico. Il sentimento di colpa che pervade entrambi prende forma in quello che Hanika chiama «odio funesto verso la GERMANIA». Hans Frambach lavora a Berlino come archivista presso l’Istituto per la Gestione del Passato, un enorme edificio collocato «al centro della capitale del Paese», dove «ufficialmente batte il cuore della nazione». Si tratta propriamente di un tipo particolare di memoriale dell’olocausto. Il suo centro è occupato per l’appunto da un archivio centrale collegato con un gran numero di archivi periferici, anche fuori del Paese, e con varie filiali nazionali. Presso l’Istituto confluiscono tutte le informazioni relative ai crimini compiuti durante il Terzo Reich. Lì queste vengono valutate, ordinate, concentrate, per essere infine dirottate nel sistema capillare della società, così che la coscienza dell’incomparabile crimine tedesco penetri in tutte le istituzioni della nazione: «Quella era l’oscurità dalla quale strisciò fuori questo Stato tempo fa, per essere collocato finalmente nella luce più chiara, questo è stato dichiarato il suo tratto essenziale, e, com’era logico che fosse, questo è stato il motivo della sua fondazione».Il libro di Hanika racconta due storie che costantemente s’incrociano: da un lato quella che denuncia la crescente istituzionalizzazione e mercificazione della Memoria, dall’altro quella che narra una storia di liberazione personale, alla scoperta di «ciò che è proprio» nell’individuo. A Graziela basta un innamoramento per iniziare una nuova vita, desiderosa di parlare «più dei problemi delle casalinghe che di Auschwitz». Per Hans, Hanika immagina una vicenda un po’ più complicata. Soprattutto perché lui ha fatto della conservazione della memoria della Shoah il proprio lavoro. Quando strappa da sé l’«infelicità», che è chiamato a «gestire», «non rimane nulla, davvero nulla», si legge. Lavorare per trasformare la sciagura storica in privata, e farla perdurare, significa auto-annullarsi ed a questo, in Hans, si oppongono i più profondi impulsi vitali.I tentativi di liberazione in Frambach sono principalmente interiori e nel libro l’azione è ridotta davvero all’osso. Forte, in lui, è anzitutto la tentazione del cinismo, che il «business della Shoah» a volte sembra sollecitare: dopo un incontro del Comitato Internazionale per Auschwitz, per esempio, la collaboratrice di un Istituto per il Risarcimento si dice entusiasta di poter essere parte della «
crème de la crème dei sopravissuti». E del resto Hans, per un viaggio di lavoro a Shangai, esige dalla segretaria del responsabile dell’archivio un posto in business e non in
economy class, perché non vuole essere trasportato in un «carro bestiame»: «Auschwitz», dice rivolto alla donna, «di certo ne avete sentito parlare».Frambach percepisce se stesso al lavoro come «un sorvegliante del campo di concentramento, solo che oggi i sorveglianti devono vigilare sul ricordo». «Di fatto», gli fa dire ancora Hanika, «noi sorvegliamo anche i campi di concentramento, perché senza di questi saremmo tutti disoccupati». E Graziela non esita a paragonare la condizione di Hans a quella di un monaco «che ha smarrito la gioia in Dio». Finché non avviene anche per Frambach il giorno della liberazione. E questo accade proprio ad Auschwitz, dove assiste ad un convegno di specialisti. Più coraggiosi del cuore, sempre in preda alla paura, sono i piedi di Hans, che si rifiutano di percorrere l’ultimo tratto che furono costretti a fare le vittime dell’olocausto. Sono i suoi piedi a condurlo «fuori / lungo la stretta strada di campagna, / quella che corre all’esterno lungo la rete», finché «lui è libero». Frambach si sottrae all’«industria della Shoah» perché vi si sente estraneo, perché il passato non è un affare. Sono queste le frasi che Hanika gli fa pronunciare mentre osserva il monumento agli ebrei d’Europa vittime dell’olocausto: «Quel passato era diventato così. Non incantevolmente bello come questo memoriale, piuttosto angustamente pesante e chiaramente impresso nel Paese e nel popolo. Tante e tante persone potevano fare tante e tante cose con quel passato e trovare la propria sussistenza, sia materiale che morale. Turbati erano ancora solo coloro che erano immersi nella concretezza e si occupavano dell’essenziale, di ciò che era accaduto realmente, delle mostruosità che non si adattavano ancora ad una elaborazione ottenuta con i mezzi dell’industria dell’intrattenimento».