Quando, 15 anni fa, nel settembre 1994, avanzavo per la prima volta la proposta di un «progetto culturale… orientato e ispirato in senso cristiano», sottolineavo che suo scopo fondamentale avrebbe dovuto essere l’inculturazione della fede nel tempo presente, ma aggiungevo subito che «sul piano della cultura… si pongono, in ultima analisi, le questioni decisive per la crescita complessiva del popolo italiano e le necessarie premesse di un efficace impegno sociale e politico dei credenti». (...) Il mio antico maestro di teologia, Bernard Lonergan, a questo proposito parlava già molti anni fa (nel 1965) di una crisi di cultura – o più concretamente di passaggio da una ad un’altra forma di cultura – che si riverbera sulla teologia e sui modi di vivere la fede. Questa crisi, a suo parere, avrebbe fatto sorgere «una destra compatta, decisa a vivere in un mondo che non esiste più» e «una sinistra sparpagliata, affascinata ora da questo ora da quel nuovo sviluppo». Quello che però davvero conterà «è un centro» che abbia «familiarità tanto col vecchio quanto col nuovo, sufficientemente solerte da elaborare uno per uno i passaggi che vanno eseguiti, sufficientemente forte per rifiutare le mezze misure e puntare su soluzioni complete, anche se occorre aspettare». Sarebbe ridicolo leggere queste parole nella chiave dell’attualità politica italiana. Sul piano teologico, culturale e spirituale esse esprimono invece qualcosa di profondo, che a mio parere manifesta la sua validità oggi assai più chiaramente di quando, non ancora terminato il Vaticano II, queste parole furono pronunciate. Il recentissimo libro-intervista di Benedetto XVI
Luce del Mondo mostra, secondo me, che il nostro Papa, a partire dalla sua prospettiva indubbiamente diversa da quella di Lonergan, vede in maniera non troppo dissimile il presente e il futuro del cristianesimo. (...) Il nostro Forum, come è giusto, si è concentrato principalmente sulla storia, l’identità, la vocazione, il presente e il futuro dell’Italia. Al riguardo vorrei anzitutto sottoscrivere le valutazioni di Claudio Scarpati a proposito dell’identificazione culturale, letteraria e artistica dell’Italia, che ha preceduto di molti secoli lo Stato unitario, dando forma, sia pure incompiuta, all’unità della nostra nazione. Del resto, come ha osservato Lorenzo Ornaghi, anche oggi l’itinerario verso l’unità sembra in qualche modo inconcluso e non esente da rischi. Nelle circostanze attuali è facile identificare le fonti di questi rischi da una parte nelle difficoltà del momento politico e dall’altra nella crisi economico-finanziaria internazionale, che pesa naturalmente anche sull’Italia. Si tratterrebbe però di una valutazione troppo sbrigativa, che non risale alle cause più vere e profonde non solo dei pericoli per l’unità nazionale ma più ampiamente degli ostacoli al bene-essere (preso in un senso non solo materiale) e allo sviluppo dell’Italia.Alcune di queste cause possono essere individuate sul versante politico e istituzionale. Ornaghi ha richiamato la nostra attenzione sulla difficile riformabilità del nostro sistema e la sua analisi mi sembra pienamente condivisibile. Una delle ragioni della scarsa riformabilità è l’altrettanto difficile governabilità. Mi limiterò a considerare questo problema nel suo aspetto apicale, cioè al vertice del sistema-Paese. Avendo seguito in maniera costante e partecipe le vicende della politica italiana dall’ormai lontano 1948, posso dire che mai, nemmeno nelle situazioni che avrebbero dovuto essere più favorevoli, come ad esempio quelle dei governi De Gasperi dopo le elezioni del ’48, l’esecutivo ha goduto nell’Italia repubblicana di una vera e sicura stabilità: è questo un elemento di debolezza relativa dell’Italia in confronto agli altri grandi Paesi europei. Perciò, pur tenendo ben presente il chiaro monito della
Centesimus annus (n. 47) che «la Chiesa rispetta la legittima autonomia dell’ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale o costituzionale», ritengo, come opinione puramente personale, che un contributo al funzionamento del nostro sistema politico potrebbe venire da un rafforzamento istituzionale dell’esecutivo, naturalmente nel pieno rispetto della distinzione tra i poteri dello Stato. Per la medesima ragione mi sembra importante mantenere, in una forma o nell’altra, un sistema elettorale di tipo maggioritario. Nella stessa direzione sembra spingere l’attuazione del federalismo: da una parte esso corrisponde alla ricchezza pluriforme della realtà storica, sociale e civile italiana e può contribuire a una più forte responsabilizzazione delle classi dirigenti locali; dall’altra parte, per non nuocere all’unità della nazione, il federalismo non solo deve essere solidale, ma va bilanciato con una più sicura funzionalità del governo centrale. (...) Nel corso di questo Forum sono state individuate varie altre fragilità e zone d’ombra del nostro Paese, ma si è anche messo l’accento sulle sue potenzialità e specifiche risorse. Soprattutto, si è tentato di configurare un progetto e una «missione» che indichino un cammino per l’Italia, e in essa per la Chiesa e per i cattolici. Cercherò ora di portare un contributo in questa direzione. Faccio riferimento a tal fine anzitutto agli interventi di Giovanni Paolo II agli inizi del 1994, in un momento di gravi difficoltà per l’Italia e per i cattolici: su questi interventi Andrea Riccardi ha già fortemente richiamato la nostra attenzione. «Sono convinto che l’Italia come nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa. Le tendenze che oggi mirano a indebolire l’Italia sono negative per l’Europa stessa e nascono sullo sfondo della negazione del cristianesimo… All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in modo speciale il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo»: queste parole di Giovanni Paolo II (Lettera ai vescovi italiani sulle responsabilità dei cattolici del 6 gennaio 1994, n. 4) mostrano un senso davvero alto della missione storica dell’Italia – senso di cui spesso manchiamo noi italiani – e legano questa missione all’anima cattolica del nostro Paese e alla speciale presenza anche istituzionale che in essa ha la Chiesa. Di fatto rappresentano un autentico rovesciamento, come ha detto Agostino Giovagnoli, di quella tesi di Machiavelli che ha avuto e continua ad avere tanto corso nella cultura italiana.Il problema vero però, dal nostro punto di vista di cattolici italiani, riguarda l’esistenza, oggi, delle condizioni effettive per corrispondere a una simile missione. È chiaro, anzitutto, che tali condizioni non possono essere un dato acquisito una volta per tutte, ma vanno invece sempre di nuovo realizzate. Convinzione di Giovanni Paolo II era comunque che non si trattasse di mera utopia: «la Chiesa in Italia – egli scrive (ivi, n. 8) – è una grande forza sociale che unisce gli abitanti dell’Italia, dal Nord al Sud. Una forza che ha superato la prova della storia». Nell’ottobre 2006, parlando al Convegno di Verona, Benedetto XVI ha detto, a sua volta, che «l’Italia… costituisce… un terreno assai favorevole per la testimonianza cristiana. La Chiesa, infatti, qui è una realtà molto viva, che conserva una presenza capillare in mezzo alla gente di ogni età e condizione». Anche nel libro-intervista
Luce del Mondo Benedetto XVI, sia pure incidentalmente, ha confermato questa valutazione. Personalmente ritengo anch’io che, nella sostanza, si tratti di una realtà, e non di una semplice nostalgia del passato, o della proiezione di un nostro desiderio. La grande domanda, però, riguarda il futuro, anche prossimo, e in concreto gli atteggiamenti delle nuove generazioni di italiani che stanno crescendo. Al riguardo l’analisi di don Armando Matteo, nel libro
La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, va presa molto sul serio. Già una decina d’anni fa un’indagine che fu fatta sui giovani romani aveva dato esiti non molto diversi. Questa è, a mio parere, la principale frontiera dell’impegno di evangelizzazione e inculturazione della fede e su questa frontiera anche il Progetto culturale dovrà muoversi con nuova attenzione e dedizione.Qualche ulteriore riflessione sulle condizioni della missione dell’Italia, come Giovanni Paolo II l’ha delineata, la propongo in dialogo con Lorenzo Ornaghi, nella sua relazione a questo Forum e in quella precedente alla Settimana Sociale di Reggio Calabria. Ornaghi ha parlato della necessità, per i cattolici italiani, di essere, nel loro impegno per il Paese, anzitutto genuinamente e concretamente «cattolici», o anche decisamente «guelfi», ciò che comporta «affermare l’idea e la realtà di "italianità" quale dato storico (insieme culturale e popolare) di cui gli essenziali e più duraturi elementi sono religiosi, cattolici», con l’avvertenza che la «perennità» e l’«esemplarità» dell’Italia cattolica dipendono dall’energia e dal successo dell’azione dei cattolici di oggi. Al di là del ricorso al termine «guelfi», che può dar luogo a diverse interpretazioni, non posso non condividere la convinzione che essere veramente, e vorrei dire semplicemente, cattolici è la premessa ineludibile per un impegno che sia storicamente efficace e al contempo davvero orientato in senso cristiano e cattolico. A questo fine, nella situazione attuale, bisogna saper reagire a quella «secolarizzazione interna» che insidia i cattolici e la stessa Chiesa, in maniera molto comprensibile data l’osmosi reciproca che non può non esistere tra la Chiesa e la società (cfr
Gaudium et spes, 40-44).È importante, in particolare, riguardo al concetto di laicità, non cadere in equivoci che possano essere frutto delle istanze della secolarizzazione. Emerge così in tutto il suo rilievo il concetto di «laicità positiva» che Benedetto XVI ha ripetutamente proposto e che congiunge all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato dalla Chiesa non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del senso religioso che portiamo dentro di noi. Alla laicità così intesa si collega il rapporto con quei laici – nel senso che questa parola ha oggi nel dibattito pubblico – che condividono tale apertura: Benedetto XVI nel discorso al Convegno di Verona e in altre occasioni, tra cui vari scritti pubblicati quando era cardinale, ha apprezzato e valorizzato con decisione questo rapporto, che non si limita a un corretto dialogo ma diventa concreta collaborazione per il perseguimento di finalità comuni. Penso che tra le condizioni per attuare oggi la missione dei cattolici italiani rientri anche una simile attenzione.