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L’editoria libraria sta cambiando. È uno dei refrain che negli ultimi decenni sentiamo a vario titolo ripetere. L’altro è: l’editoria libraria sta morendo, ma questo è ormai talmente assimilabile a una fake, che non vale neanche la pena sostarvi. L’editoria libraria è cambiata, certamente, e sta cambiando. Le ragioni sono molte e non vale qui la pena ripeterlo. È innegabile che la floridezza dell’industria editoriale, che a molti è parsa invincibile, va invece riconosciuta per quel che è: un fenomeno transitorio la cui durata non supera i 40 anni: dopo gli anni ’80 si deve parlare d’altro, ossia di un numero certamente significativo in termini di mercato di acquirenti del prodotto-libro; e di una nicchia, meno ampia, di lettori reali. La forbice non è per nulla banale, con tutte le conseguenze che trascina con sé: per gli acquirenti non lettori, il libro non può essere considerato un bene di prima necessità.
Una seconda cosa: i decenni del grande sviluppo dell’industria editoriale libraria hanno (non casualmente) coinciso con l’epoca dell’alfabetizzazione del nostro Paese. Il che rende facile un accostamento: dove e quando si operi bene in ambito culturale, educando alla lettura e all’approfondimento delle tematiche sensibili, aumentano i lettori. Quel che è successo negli ultimi decenni, però, va nella direzione opposta: un imbarbarimento generale in ambito culturale; il peggiorare del lavoro formativo ed educativo nella scuola (le cause sono ampiamente dibattute, ma la situazione è sotto gli occhi di tutti); la diffusione di un nozionismo condito di opinioni più che di fatti; l’accelerazione e moltiplicazione (e conseguente minor approfondimento) delle notizie: questo e altro ha fatto sì che il livello medio della cultura nel nostro Paese sia obiettivamente precipitato. Siamo in un tempo di drammatica dealfabetizzazione, che tocca non solo i ceti più fragili, ma anche quelli che dovrebbero “governare la cultura”. In tutto questo, l’industria editoriale libraria si è adattata. Che poteva fare? Come ogni industria risponde a criteri di sostenibilità economica.
È inutile scandalizzarsi, come qualcuno dà mostra di fare, per il livello dell’offerta culturale di alcuni editori, anche in ambito cattolico: “È il business, amico!” E l’editoria libraria cristiana e cattolica? Fa lo stesso dell’editoria laica: cerca di far “funzionare la macchina”, di rendere appetibile il prodotto in una contingenza in cui l’acquirente conta, in termini numerici, più del lettore reale. Il moltiplicarsi di titoli, in un panorama in cui diminuiscono i lettori, evidenzia un tema: all’editore importa più avere acquirenti che lettori, più accumulatori che consumatori. D’altronde, anche il mondo cattolico ha subito una radicale dealfabetizzazione negli ultimi decenni: le cause, in parte, vengono da un profondo (irrecuperabile?) scollamento tra l’ambito accademico (sempre meno incisivo sulla realtà) e la devozione popolare (che, invece, per necessità, di realtà si nutre).
Per dirla terra terra: alla gran parte poco importa che si spieghino le ragioni dei miracoli, molto di più che si possa continuare a credere che essi accadono. Che fare? La prima cosa è riconoscere, con onestà intellettuale, ciò che è accaduto e sta accadendo: ciò libera da una serie di illusioni sul futuro del libro (anche religioso). L’editoria non tornerà a essere l’industria florida che è stata per (soli) 40 anni. Eppure, editori ne nascono ancora, come nel caso della neonata casa editrice voluta dalla Provincia euro-mediterranea della Compagnia di Gesù: Il Pellegrino. La scommessa, qui, è semplice ma essenziale: andare a coprire il varco latente tra il mondo della cultura laica e quello della cultura cattolica, alla ricerca di uno spazio di dibattito culturale, formativo, ideale sui temi che definiscono il nostro essere umani dentro una civiltà, pure in profonda trasformazione. Questo terreno di dialogo, negli ultimi vent’anni, si è enormemente ridotto: pure, resta necessario. Le grandi questioni etiche che dominano i nostri giorni, le ferite sociopolitiche, le domande sul senso in un tempo senza senso (per parafrasare Bonhoeffer), non possono essere disattese; e l’editoria libraria conserva in tutto ciò un’esigenza che le viene dalla propria vocazione originaria: narrare e far pensare.
Proviamo a porre così la domanda: se lo scopo non fosse “vendere libri” (se ci si ricordasse che questo è il mezzo), ma creare piattaforme di dialogo, di scambio, di progettualità e profezia in uno spazio ultimamente consegnato, quasi per resa, alla rissa e al contrasto, l’editoria avrebbe ancora un futuro non semplicemente “industriale” ma di immaginazione della realtà, di profezia (come è stato ben oltre i 40 anni dell’industria)? Per concludere rilanciando: senza un patto tra l’editoria (libraria e non) e la scuola (senza un vero patto educativo) non ci sarà nulla di tutto ciò. Qui sta, obiettivamente, una storia tutta da scrivere, se lo si vorrà.
* direttore del progetto Il Pellegrino edizioni