Se la mela nella storia biblica è il simbolo della tentazione, bisogna dire che fra le sue vittime di seduzione ci sono stati parecchi filosofi, scrittori e artisti. Da Adamo ed Eva la mela non ha mai smesso di tentare l’uomo. La mela di Guglielmo Tell, quella di Newton, le mele col baco di Caravaggio, quelle di Cézanne, e, per venire più vicino a noi, the Big Apple – una città-mela – oppure una semplice Apple con morso incorporato che diventa simbolo del nostro tempo: fatti tentare dalla tecnologia digitale, la nuova Eva che rende il peccato inevitabile... Ma la mela che ci interessa qui si rifà a una leggenda, quella di quando Tommaso d’Aquino insegnava agli studenti parigini. Pare che entrasse in aula, posasse una mela sul tavolo e si rivolgesse ai nuovi venuti così: «Chi pensa e dice che questa non è una mela, esca pure, perché non potrei insegnargli nulla». Non per arroganza, ma per non perdere tempo in pindariche discussioni nelle quali la rappresentazione o l’idea astratta cancellasse il dato oggettivo: la mela appunto. Se l’America fosse stata scoperta secoli prima, a lezione Tommaso avrebbe potuto trovare un giovane yankee, proveniente dal Colorado, capace di rispondergli: «Dipende», e con stupore il maestro gli avrebbe replicato: «Dipende cosa?»; quel giovane impertinente allora gli avrebbe posto la seguente obiezione: «Dipende dalla percezione intenzionale». Se la storia non si fa con i se e i ma (qualche volta, però, può servire a illuminare zone poco comprensibili...), il pensiero filosofico invece è fondato anche sui se e sui ma. Per cui se il giovane denveriano John Searle si fosse trovato al cospetto dell’Aquinate forse alcune verità che riguardano la nostra abituale propensione a sovrapporre rappresentazione e realtà sarebbero state già da tempo invalidate. Non perché Searle sia un anti-Tommaso, semmai il contrario: il realismo tomista è alla base di molte riflessioni sull’intelligenza artificiale, a cui Searle ha dato importanti contributi. Ma non è questo l’ambito dove la sua ricerca filosofica ha prodotto i maggiori frutti. Searle, per esempio, ha sempre respinto l’identificazione fra cervello e mente, irritando parecchio il filone materialista delle neuroscienze che vorrebbero ridurre tutte le nostre facoltà coscienti e pensanti al funzionamento della macchina cerebrale. Fra mente e cervello si dipana lo spazio della coscienza – che non è una semplice attività di impulsi elettrici né una produzione di sinapsi – e Searle ha detto in più occasioni che allo stato attuale la coscienza resta per noi ancora un enigma, qualcosa che non possiamo appunto spiegare col semplice lavorio cerebrale, anche se il filosofo – che non è credente– mette ben in guardia dalla facile conclusione che nella coscienza ci sia qualcosa di irriducibile alla ragione. Non è trascendenza in senso religioso, caso mai si tratta di un piano di complessità che non sappiamo ancora comprendere ma che non può essere ridotto alla mera funzionalità materiale del cervello. La percezione è uno dei campi dove l’agire umano sembra ancora annaspare dentro un livello di confusione concettuale che porta a sovrapporre l’oggettività della cosa e la soggettività interna alle nostre evoluzioni mentali rispetto a essa. E qui torna a farsi presente l’immagine della mela di san Tommaso. È una mela o non è una mela quella che appoggiò sulla sua cattedra magistrale? È una mela o potrebbe essere altro? Se la mela di Adamo – ovvia allegoria della tentazione che esercita ciò che è bello, attraente, capace di condensare desideri che sono quanto di più soggettivo vi possa essere in noi – ha calamitato tante intenzionali aspettative, evidentemente quella mela è proprio una mela ma è anche soggettivamente la mela che pensiamo che sia nella nostra attività mentale. La percezione intenzionale si colloca in questo spazio di verità-illusione. Searle a ottantatré anni ha pubblicato nel 2015 un volume che cerca di fare chiarezza sulla questione:
Vedere le cose come sono, ora pubblicato in traduzione dall’editore Cortina (pagine 250, euro 25,00). Già la risposta che sembra affermarsi fin dal titolo è che si possa arrivare a vedere una mela come una mela. In realtà, questo è vero solo per quel che riguarda lo spazio di riflessione che si crea fra la mela e la nostra percezione. Se la mela di Tommaso è qualcosa che possiamo riconoscere nella sua oggettività (ma qui si apre anche la questione degli atti linguistici, e forse bisognerebbe indagare comparativamente fra gli idiomi la diversità delle parole come elemento storico-antropologico che ha trovato una differente espressione fonetica e verbale), che dire, invece ,della frutta che Caravaggio dipinge nella sua celebre
Canestra conservata all’Ambrosiana o delle più astratte nature morte di Cézanne (ricordando che per il pittore francese la natura si riconduceva alla composizione di solidi elementari: cubo, sfera, cono ecc.)? Quella mela è sempre una mela? Caravaggio dipinge una mela e una pera con le picchiettature prodotte dalla beccata di un uccello o dal verme che vi si è annidato, in ogni caso insinuando l’illusione che sembra accreditare la formula «le vedo come sono»; Cézanne potrebbe dire invece: «Le vedo come sono... dentro di me». Entrambi giocano la stessa carta, ma la storia che li separa ci ha fatto capire che nella modernità il fattore soggettivo diventa mezzo espressivo di una verità che non coincide con l’apparenza fenomenica, ma emerge dall’incontro fra l’oggetto e la nostra percezione intenzionale, direbbe Searle, e il quadro dipinto è la negazione materiale dell’identificazione fra oggetto e rappresentazione (posto che il nostro vissuto soggettivo, anche quello del pittore, è causato dall’oggetto: senza di esso non potrebbe esserci nemmeno una percezione intenzionale, caso mai la semplice idea della mela). Comprendere la percezione, il suo
modus operandi, significa comprendere qualcosa in più della nostra mente, ma anche ciò che la separa dall’oggetto stesso; andare un po’ più a fondo nella comprensione della nostra coscienza. In definitiva, ciò che vedo è una mela, ma prima che possa dire che è una mela (non l’idea di una mela), devo passare attraverso un vissuto soggettivo che nella percezione mette in gioco la mia individualità come esperienza, sensibilità e storia personale. Non più una separazione cartesiana fra mondo e coscienza, ma una reintegrazione di due stati distinti e interagenti. È questa relazione causale fra l’oggetto e la nostra percezione che, compresa correttamente, può illuminare meglio quell’ineffabile stato della coscienza. E qui torniamo alle questioni che Searle ha indagato fin dai saggi sugli atti linguistici. Atti che non sono semplice tecnica strumentale, ma espressione di un vissuto. Naturalmente, l’elaborazione di Searle è molto complessa e si avvale di formulazioni e definizioni
ad hoc che qui non possiamo approfondire. Paolo Spinicci nell’introduzione rileva che «le esperienze percettive debbono essere intenzionali, perché debbono presentare gli stati di cose che le soddisfano e che determinano ciò che intendiamo quando diciamo di aver visto che gli occhiali sono sul tavolo o che c’è un merlo che ha spiccato il volo». E più oltre precisa: «Da un lato la percezione è un evento reale, dall’altro i vissuti sono essi stessi elementi del mondo, fatti la cui esistenza non deve essere messa in discussione, ma nemmeno interpretata alla luce di una qualche teoria che tenda a rendere la loro esistenza diversa da quella di ogni altro evento ». L’errore che Searle vuole smantellare si riconduce al cosiddetto «rappresentazionalismo », ovvero l’uso improprio del termine “oggetto” per intendere il contenuto immanente della coscienza (l’oggetto proprio del percepire) oppure l’oggetto reale che è causa anche della percezione che ne abbiamo. Si potrebbe definire un tentativo di pulizia logica e razionale rispetto a una confusione che, dopo tutto, può considerarsi uno degli effetti negativi indotti come reazione alla antinomia cartesiana fra oggetto e soggetto, fra
res cogitans e
res extensa.Ma qui entra in gioco anche l’argomento dell’illusione ricordato da Spinicci: se nel deserto vediamo un’oasi oppure, causa un miraggio, pensiamo di vederla, possiamo considerare quest’ultima illusione soltanto come cosa ingannevole, oppure quell’oasi che vedo nel miraggio, pur non essendo un oggetto reale è d’altra parte un oggetto mentale, in quanto tale esistente? Per Searle è chiaro che non si devono sovrapporre le due cose come se fossero la stessa cosa. Intende cioè sconfessare l’uso improprio che viene solitamente fatto del termine “oggetto” per qualcosa che è una nostra proiezione mentale. A suo modo, auspica un ritorno al realismo, anche tomista.