mercoledì 15 maggio 2013
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«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Non sembra esagerato affermare che queste parole del Signore Gesù intercettano, in modo immediato e sorprendente, l’anelito più profondo che qualifica da sempre il cuore dell’uomo. Se si tiene conto del contesto in cui il celebre versetto si colloca non sfugge però la sua componente altamente drammatica. Nella storia, tra verità e libertà si da inevitabilmente una tensione. La Verità in senso pieno, si offre e non può non farlo, come assoluta, totalizzante; la libertà, sua interlocutrice propria, d’altra parte, non accetta coercizioni. L’anelito di libertà proprio dell’uomo, costitutivamente orientato alla ricerca della verità, esprime il carattere inviolabile della sua coscienza: «La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (GS 16). La coscienza è il luogo dell’incontro tra la verità e la libertà, la dimora del loro connubio. Essa è un cardine di ogni forma di ordine sociale a misura d’uomo.
Il versetto biblico propone un rapporto dinamico con la persona di Gesù che rende pienamente liberi. Esso 'merita' paradossalmente la celebre accusa che il Grande inquisitore, nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, rivolge a Cristo: «Invece di impadronirti della libertà degli uomini, Tu l’hai ancora accresciuta!».
L’evangelista ci mette di fronte alla 'pretesa' di Gesù di farci conoscere la verità. Afferma, in altri termini, che la verità ci viene incontro per offrirsi a noi in dono. È vero che l’uomo postmoderno spesso mette in questione la possibilità stessa di accedere alla verità. Eppure le parole di Gesù, «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi», continuano indomite a risuonare e sfidano, dopo 2000 anni, ogni preclusione e pregiudizio.
La capacità di Gesù di interloquire con ogni uomo, in ogni tempo storico, scaturisce dal fatto che Egli sa parlare 'al cuore' della persona. Infatti porre la domanda circa la verità e circa la libertà e stabilire quale nesso debba sussistere tra loro, significa andare al centro dell’io, da cui ogni uomo parte per il percorso che lo porti al compimento di sé, cioè alla felicità, in termini cristiani alla santità.
La celebrazione dei 1700 anni dal cosiddetto Editto di Milano costituisce un’occasione privilegiata per rimettere a fuoco tali questioni in se stesse irrinunciabili ultimamente legate alla natura ineliminabile della dimensione religiosa dell’uomo. La riconosce acutamente l’eccentrico pensatore George Steiner: «Potessi soltanto buttare via la zavorra di una visione religiosa del mondo.
Potessi soltanto lasciarmi alle spalle quella 'malattia infantile'… L’ordinanza positivista che impone alla mente adulta di chiedere al mondo e all’esistenza soltanto 'Come?' e non 'Perché?' è una censura fra le più oscurantiste. Vorrebbe imbavagliare la voce sotto le altri voci dentro di noi.
Persino al livello del 'Come?' non è affatto certo che le scienze maestose troveranno risposte dimostrabili… Per me esiste la pressione assolutamente innegabile di una Presenza aliena alla spiegazione» (cfr
Errata ). Come non cogliere, in ultima analisi, in questa Presenza la forza stessa della verità che interpella l’umana libertà?
In questo contesto possiamo svolgere qualche considerazione sul tema della libertà religiosa in quanto tale. Essa non comporta l’imposizione della verità, ma piuttosto l’accettare che sia la verità stessa, per essere riconosciuta in quanto tale, a chiamare in causa la libertà. In quest’ottica il Concilio Vaticano II, nella Dichiarazione Dignitatis humanae, si è occupato della libertà religiosa non in termini generali come libertà morale nei confronti della verità o di un valore - tesi essenziale, esplicitamente richiamata dalla celebre Dichiarazione - ma si è volutamente limitato a considerare la libertà giuridica nell’ambito dei rapporti tra le persone e nella vita sociale. Tale libertà implica che nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità alla sua coscienza. Così concepito, il diritto alla libertà religiosa è un diritto negativo che stabilisce i limiti dello Stato e dei poteri civili, escludendo una loro competenza diretta sulla scelta in materia religiosa.
La strenua affermazione e difesa della libertà religiosa dice la centralità e l’inviolabilità della persona umana, la sua dignità, fondamento dell’organizzazione sociale. Secondo alcuni le parole della Dignitatis humanae potrebbero ultimamente essere lette come una resa da parte della Chiesa cattolica, non più in grado di mantenere i propri privilegi, alle pretese della secolarizzazione, siano esse ritenute benefiche o meno.
Interpretare in questo modo l’insegnamento conciliare significa subire un clima culturale che non riesce più a pensare la realtà nella sua origine, cioè nell’orizzonte della creazione opera della Santa Trinità. Così facendo si ignora la presenza benefica del Dio Uno e Trino, sorgente della vita della persona, della comunità e del cosmo. A differenza dei nostri fratelli d’Oriente, noi cristiani di Occidente ci siamo spesso rassegnati a non fare più della confessione della nostra fede ­basata sul credo che ogni domenica professiamo comunitariamente nella celebrazione eucaristica - il cardine del nostro pensiero. Veniamo colti da uno strano pudore a comunicare l’esperienza che scaturisce dalla nostra fede, nel timore che questo possa minare l’universale solidarietà con tutta la famiglia umana, i cui componenti si riferiscono a visioni diverse della realtà. Eppure è vero il contrario.
L’autentica tradizione ha sempre riconosciuto e affermato «quanto viva sia la relazione tra il più inavvicinabile di tutti i misteri [la Santa Trinità appunto] e la nostra vita quotidiana» (Romano Guardini). Il perfetto ed eterno scambio di amore, nello Spirito Santo, tra il Padre e il Figlio da Lui generato apre lo spazio, nel mondo creato - cioè nell’umana esperienza - ad una comunicazione della verità che chiede di essere accolta dalla libertà. Una libertà che non percepisce il legame di dipendenza da Dio in termini di sudditanza, ma in termini di filiazione. L’uomo creato ad immagine della Trinità come maschio e come femmina - differenza questa interna ad ogni persona - si compie accogliendo la verità che sempre chiede il dono della libertà. Non a caso la costituzione pastorale Gaudium et spes al n. 24 insegna che «l’uomo, il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stesso, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé».
I l nesso Trinità, verità e libertà, lungi dal restare relegato nell’ambito cristiano, illumina anche la comune vita sociale. E rappresenta un decisivo contributo che i cristiani debbono offrire, in quanto cittadini, a tutti i soggetti che abitano la società plurale. Dalla contemplazione della Trinità emerge una visione dell’uomo e L’ della società praticabile da tutti, che supera in radice qualunque pensiero incapace di riconoscere la differenza come un bene e nello stesso tempo non rinuncia a quell’unità che è il marchio inconfondibile del vero.
Dal punto di vista dell’organizzazione sociale ne derivano conseguenze decisamente notevoli. Infatti, il riconoscimento del bene della differenza permette di combattere l’utopia del collettivismo in cui l’uomo è dissolto nello Stato. D’altra parte, non rinunciare mai all’unità come orizzonte necessario di ogni realizzazione sociale mette al riparo dall’utopia dell’individualismo, incapace di concepire la logica del dono necessaria, invece, al bene personale e sociale. Afferma il nostro padre Ambrogio: «Nulla si accorda tanto con l’equità quanto la giustizia, la quale [è] inseparabile compagna della benevolenza». E così scrive l’enciclica Deus caritas est al n. 28: «L’amore -caritas- sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo». Il servizio della carità fa emergere ciò che è specificamente umano ed esalta il necessario ordine di giustizia.
L'annuncio della Trinità Santa e della salvezza compiuta nel Crocifisso Risorto trova la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica unite nel cammino comune dell’evangelizzazione e del contributo all’edificazione di una civiltà dal volto umano. Sua Santità Bartolomeo ebbe a dire l’11 ottobre 2012 in Piazza San Pietro: «La nostra presenza qui - e quindi anche quella di oggi a Milano - significa e segna il nostro impegno a testimoniare insieme il messaggio di salvezza e guarigione per i nostri fratelli più piccoli: i poveri, gli oppressi, gli emarginati nel mondo creato da Dio». E il Santo Padre Francesco ha affermato nell’omelia dell’Eucaristia per l’inizio del ministero petrino: «Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!».
Questo slancio missionario universale del cristianesimo è stato ed è la strada più importante per perseguire l’unità dei cristiani. A questo compito appartiene intrinsecamente la promozione della libertà religiosa sia in Occidente che in Oriente.
Sono diverse le forme in cui questa libertà viene conculcata o non pienamente attuata. Promuoverla a beneficio delle nostre società e promuoverla insieme con i fratelli d’Oriente è un dovere che la Chiesa cattolica non intende disertare.
I cristiani stanno progressivamente rendendosi conto della necessità di un senso di vita adeguato ai grandi cambiamenti in atto che necessitano un approfondimento della dimensione affettiva e dell’esperienza del bell’amore, l’accettazione cordiale della società plurale ed il contributo costruttivo alla vita buona e al buon governo. Fattori che implicano un pensiero positivo e deciso della 'differenza'. Esso, se rettamente perseguito, non spezza l’unità. Ne è garanzia proprio il mistero del Dio Uno e Trino.
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