Si capisce che Philip Schultz è un poeta prima ancora che inizi a parlare di poesia. «Come state in Italia dopo il terremoto? – domanda al telefono dal suo studio di East Hampton, non lontano da New York – Lei ha avuto problemi?». È una specie di Vecchio Marinaio al contrario: il protagonista della celebre ballata di Coleridge cercava qualcuno che ascoltasse le sue peripezie, mentre Schultz si interessa istintivamente alle vicende degli altri. «Raccontare storie, e più ancora condividerle, è quello che mi ha permesso di sopravvivere, spingendomi poi a scrivere», dice. Classe 1945, contrastato esordio da romanziere e affermazione abbastanza tardiva nel 2008 con il Pulitzer per la raccolta poetica Failure, «Fallimento » (dalla quale proviene la sezione Erranti senza ali, ora pubblicata da Donzelli a cura di Paola Splendore, pp. 108, euro 14), Schultz ha sorpreso e commosso i lettori con il resoconto autobiografico La mia dislessia (in Italia è disponibile, sempre da Donzelli, una nuova edizione ampliata: pp. 112, euro 17,50). «Leggere è sempre stato difficile per me – spiega l’autore, che la prossima settimana interverrà al Festivaletteratura di Mantova – ma ho capito di essere dislessico all’età di 58 anni, quando la sindrome è stata diagnosticata a mio figlio Eli. Solo a quel punto sono riuscito a ricostruire la mia storia: gli insuccessi a scuola, le umiliazioni, l’essere relegato nella Classe dei Cretini, dove ci si limitava a tenere un libro aperto sul banco e far finta di imparare».
Eppure, secondo lei, dislessia e poesia hanno qualcosa in comune, giusto? «Sì, la necessità, che diventa capacità, di osservare il mondo da una prospettiva diversa, inconsueta. Vede, da diversi anni ho fondato una scuola di scrittura e il mio metodo si basa esattamente su questo: scegliere o inventare un personaggio e provare a guardare la realtà dal suo punto di vista. Immedesimandosi, ma senza mai dimenticare che si tratta di una maschera, di una finzione che però permette di scoprire qualcosa di autentico. Imparare a leggere non è stato facile per me, ancora adesso mi capita di dover tornare più volte su un testo per coglierne il significato. In qualche modo, però, tutto questo mi ha reso più facile entrare nella mente e nel cuore di un altro, così da esprimere i suoi pensieri e le sue emozioni».
La poesia, dunque, è essere se stessi attraverso la mediazione di un altro? «Per me è un modo di guardarmi a distanza, un tentativo di trovare un elemento di universalità nell’esperienza di tutti. Erranti senza ali, per esempio, prende spunto da una notizia che avevo letto all’indomani dell’11 settembre 2001. Per ricoverare i feriti delle Torri Gemelli gli ospedali avevano svuotato in fretta e furia i reparti psichiatrici. Eravamo tutti sotto shock, in quei giorni, ma tra di noi c’era qualcuno che aveva appena ricevuto un trattamento d’urto e adesso vagava per le strade della città ferita. Ho provato a chiedermi chi potesse essere quell’uomo, come si guadagnasse da vivere, quali fossero le sue emozioni. Non sono io, a differenza di quanto hanno pensato alcuni. Ma su quel personaggio ho trasferito una parte della mia esperienza, questo sì».
Quale?«Il timore di essere stupido, inadatto alla realtà. E il bisogno di adattarmi alle situazioni. Venivo da una famiglia povera, figlio unico di una madre che riponeva in me tutte le sue ambizioni di successo, ma io non facevo altro che deluderla, senza neppure riuscire a capire perché. Abitavamo in quartiere molto difficile, oltretutto, ed essere considerato il più stupido della compagnia non era certo un vantaggio. Ora che ci penso, credo che la mia passione per i cani venga da qui, dall’essermi trovato spesso davanti all’alternativa tra fuggire e combattere. L’importante è fare di volta in volta la scelta giusta, ma presto o tardi ci si abitua. Sa, in strada l’occasione si presenta spesso, sia ai cani sia a quelli che stanno nella Classe dei Cretini».
Lei è ebreo e nell’ebraismo la lettura svolge un ruolo fondamentale. «Non sono mai stato particolarmente osservante, ma ho sempre amato la tradizione e i rituali della sinagoga. Entrare in relazione con questa parte della mia identità non è stato semplice, proprio per l’importanza che la parola scritta ha nella religione e nella cultura ebraiche. Oggi, però, sono del tutto a mio agio in questa dimensione. A volte mi invitano a leggere i miei versi in sinagoga e so per certo che, quando vengono tradotte in ebraico, le mie parole conservano il tono dell’originale inglese. Forse questo accade perché la poesia è la mia vera forma di spiritualità. Sono un grande ammiratore di Dante, tra l’altro, e nel mio ultimo libro, il romanzo in versi The Wherewithal (“Lo stretto necessario”, ndr), ho provato a raccontare la persecuzione degli ebrei sotto il nazismo prendendo a modello l’Inferno».
Non ha mai avuto l’impressione che, rispetto alla complessità del mondo contemporaneo, è come se fossimo tutti un po’ dislessici? «È vero, ormai non c’è persona che non debba misurarsi con qualche forma di disabi-lità, fisica o intellettuale, emotiva o di relazione. Nessuno, per un motivo o per l’altro, può essere considerato del tutto abile. Nel caso della dislessia la difficoltà riguarda in maniera specifica il processo di decodificazione del linguaggio, ma non è detto che questo sia un male. Al contrario, se ripenso alla mia storia mi rendo conto che lo sforzo al quale mi sono dovuto sottoporre per leggere un libro mi ha aiutato a leggere meglio la mia stessa vita. In questo senso sì: davanti alla lingua misteriosa in cui la nostra esistenza è scritta siamo tutti dislessici, in un modo o nell’altro».