«La Sardegna ha ricevuto dall’unità in termini di modernizzazione più di quanto abbia perso in autonomia». Non è tipo da difesa d’ufficio, Aldo Accardo. Il presidente della Fondazione Siotto, che coordina il comitato regionale dei 150 anni, ammette che quella della Sardegna unitaria è una storia di luci e ombre. Dopo la fusione del 1847 con il Regno di Carlo Alberto – fino ad allora l’isola aveva conservato le antiche istituzioni feudali – «abbiamo conosciuto il parlamentarismo e il mercato internazionale». Aggiunge la storica Maria Luisa Di Felice: «Far parte della lega doganale aiutava ad esportare pelli e grano, ma ci espose alla colonizzazione dei genovesi, che si appropriarono delle nostre miniere; e sparirono i boschi secolari, trasformati in traversine per le strade ferrate. Non le nostre».I trasporti sono ancora oggi la zavorra dello sviluppo sardo. Se si eccettua la "Carlo Felice", che collega Cagliari a Sassari, il gap non è diverso da quello rilevato da Carlo Cattaneo nel 1840: 400 chilometri di carrozzabili contro i 25mila della Lombardia. Il fondatore del
Politecnico proponeva di investire subito 24 milioni dell’epoca; 170 anni dopo, Berlusconi ha vinto le regionali promettendo una lista miliardaria di infrastrutture. Dovevano nascere per il G8 della Maddalena, si sa com’è andata a finire.Ancora Accardo: «Alla fine, l’ingresso nel mercato internazionale comportò più danni che benefici. La guerra doganale con la Francia produsse una flessione dell’export di bestiame del 90 per cento. Sul piano istituzionale, esplose il centralismo piemontese, "sanato" solo dalla Repubblica con lo Statuto di autonomia». Anche la fine del feudalesimo ebbe un sapore agrodolce. «La legge delle chiudende, nel 1820, permise solo a chi aveva i soldi di cintare i possedimenti. Fu una rivoluzione non indolore». Né fu l’ultima. Nel 1972 la commissione Medici stabilì che per sconfiggere il banditismo si dovessero trasformare i pastori sardi in operai: iniziava così la sfortunata (e dispendiosa) epopea dell’industria chimica sarda. Il comitato promotore produrrà pubblicazioni e conferenze per scandagliare queste vicende. Un grande convegno storico riunirà gli storici delle Università di Cagliari e Sassari ma c’è chi, come il professor Antonello Mattone, è critico – «Finora si è fatto poco o nulla» – e paventa il rischio che resti un appuntamento per pochi. Come quelle famiglie che "c’erano", a Novara, a Custoza, a Pastrengo… «La nobiltà sarda diede un contributo importante alle guerre d’indipendenza. Efisio Cugia di Sant’Orsola fu ministro e generale, Litterio cadde in battaglia» racconta Gian Felice Pilo, titolare di uno studio legale a Sassari, imparentato con mezza nobiltà sarda e delegato dell’Associazione araldica. «Anche i rapporti con la Chiesa – attesta – erano stretti: quando firmarono il Concordato nel ’29, il primo gentiluomo di corte era un Arborio Mella di Sant’Elia e il vescovo che assisteva alla firma suo fratello».Il ruolo strategico dell’alleanza trono e altare in Sardegna è stato chiarito da uno studio di Giuseppe Zichi –
I cattolici sardi e il Risorgimento – promosso dal Progetto culturale della Conferenza episcopale sarda. Zichi parte dalla lettera con cui »il viceré Carlo Felice nel 1816 spiegava ai vescovi dell’isola come "la religione e il governo si dovessero scambievole aiuto e favore". E infatti la Chiesa svolse un ruolo di primo piano». Nella Sardegna preunitaria il clero vigilava sulle scuole, promuoveva l’agricoltura e spronava i giovani – i sardi non avevano il vincolo della coscrizione obbligatoria – ad arruolarsi, ma già con la politica di laicizzazione dello Stato sabaudo – cioè prima di Porta Pia – cambiò tutto e qualche vescovo, come quello di Cagliari, fu costretto all’esilio.Divisa tra Dio e la Patria, la nobiltà scelse la seconda. I genitori del colonnello Gavino Delogu lo volevano canonico ma lui a 14 anni si arruolò volontario, guadagnandosi encomi e medaglie a Solferino, San Martino e Magenta. «Fu incaricato – ricorda un suo discendente, Alessandro Ponzeletti – di trattare la resa di Perugia con il legato pontificio, monsignor Pecci, il futuro papa Leone XIII, il quale rifiutò». Centocinquant’anni dopo, spirano brezze revisioniste: «Molti pensano – dice Pilo – che avesse ragione Pio IX e che si dovesse dare all’Italia una struttura federale fin dall’inizio».