venerdì 30 settembre 2016
La Sardegna non piange: sorride
COMMENTA E CONDIVIDI

Gesuino Némus pare sia lo pseudonimo d’uno scrittore della sarda Ogliastra, emigrante di Jerzu, con alle spalle molti lavori (dal contadino  all’attore, dall’operaio all’editor), al secolo Matteo Locci, il quale, nel 2015, ha esordito a 57 anni con un romanzo felice sin dal titolo, Teologia del cinghiale, che ora ha vinto il Premio Campiello Opera Prima e che ebbe ottima accoglienza critica. A suo modo, un caso: se è vero che Gesuino Némus non è solo il nome dell’autore, ma anche quello d’uno dei due bambini protagonisti del libro, al centro della vicenda che muove – siamo nel 1969 – dal ritrovamento del cadavere d’un latitante per sequestro, che è poi il padre dell’altro bambino, Matteo Trudìnu, come Gesuino protetto da don Cossu, il prete gesuita che li tratta come figli. Bisognerà aggiungere che il nuovo romanzo di Némus, I bambini sardi non piangono mai, è strettamente connesso al precedente, non solo perché vi ritroviamo Gesuino, il quale ritorna a casa dopo molti anni in giro per manicomi, per cominciare a scrivere un libro di memorie, questa volta ambientato nel 1968, al tempo delle università occupate e dei movimenti che miravano all’indipendenza della Sardegna. E nemmeno per il fatto che vi ritroviamo il paese dell’entroterra isolano di Telévras, quello in cui, ai tempi dell’arrivo di don Cossu, si giungeva da Porto Torres «dopo (…) sei ore di viaggio in corriera». C’è, infatti, qualcosa di più a tenere i due romanzi in stretto rapporto, come si evince a pagina 75 di Teologia del cinghiale, ove abbiamo la spiegazione del titolo di questo secondo libro, quando un giuramento impegna i due ragazzini affascinati da una frase («I Kennedy non piangono mai»), cui segue la promessa di Gesuino di scrivere un libro a Matteo dedicato, venduto a 300 lire (500 due copie) e così pubblicizzato: «I bambini sardi non piangono mai/Perché per loro hanno già pianto troppo/ I padri e le madri/ Ma io sono un bambino fortunato/ Perché non ho padre/ Perché non ho madre/ E chiedo scusa a tutti se sono proprio fortunato/ Perché per me piange il Maestrale». Che i due libri di Gesuino Némus siano due romanzi gialli con molta suspense non è cosa che mi emozioni particolarmente. Per altro il giallo, genere regressivo e consolatorio – quando non è problematico e strumentalmente rivolto ad altri fini, come in Gadda, Sciascia o Dürrenmatt, per dire –, mi irrita sempre mol- to. Né mi ha particolarmente suggestionato la lingua – che qualcuno, parlando della voce narrante dell’esordio, ha addirittura definito «ipnotica» (ma quanto si esagera oggi in Italia? Nelle recensioni, dico, sempre meno pensate criticamente, sempre più apologetiche) –, che, in questo I bambini sardi non piangono mai, è più neutra e comunicativa, non corteggia l’anacoluto, trascura l’espressività pseudo- dialettale. Ciò che mi interessa dei due romanzi di Gesuino Némus sta invece in questa specie di ironica operazione antropologicoculturale, tra mimetico-celebrativa e decostruttiva, che possiamo verificare in considerazioni come questa. Cito ancora da Teologia del cinghiale: «Così come quel tale (…) che veniva anche lui da un’isola lontana come la Sardegna dove però pioveva sempre e bevevano più birra che secondo me è una bugia che in fatto di birra la Sardegna non la batte nessuno ». La mitica birra Ichnusa sulla quale, alla fine di I bambini sardi non piangono mai, leggiamo: «Ché noi siamo sardi solo sui traghetti della Tirrenia e ci cumbidiamo di birra Ichnusa anche se alle Bocche di Bonifacio caccìamo l’anima: mica per la birra, ma 5 euro un birroncino da 33 cl, insomma».Ecco: in quest’ultimo romanzo, seppure potremmo anche divertirci, poco ci importa di quella trama di fatti che conduce ai soliti misteri d’Italia – perché è lì che ci condurrà il nostro protagonista –, tra servizi segreti deviati e depistaggi, altri cadaveri. Quello che ci interessa davvero è il lavoro che continua a fare sugli stereotipi sardi, rifiutando l’alternativa tra apocalittici cosmopoliti e integrati etnici, come in tali citazioni su una birra che, come sa chi in Sardegna vive, alimenta leggende, genera allegria, fomenta orgoglio identitario. Già, il problema dell’identità: vera pietra dello scandalo quando si parla dell’isola. Come s’è detto, dentro I bambini sardi non piangono mai, il personaggio eponimo sta scrivendo un libro che ha a che fare con una vicenda di lotta indipendentistica. Le tre righe che ho citato sulla birra Ichnusa sono quelle iniziali della conclusione del libro, che sul problema identitario ha una vertiginosa ed esilarante accelerazione: se è vero che l’identità viene qui frantumata in funzione di una Sardegna plurale, chissà quanto immaginaria, dal Mandrolisai al Logudoro, dal Goceano al Sarcidano, a tutte le Barbagie e così via, sino alla risoluta e irridente dichiarazione, che gli ogliastrini «stanno un po’ sul cazzo a tutti, (…) convinti di essere gli unici ad avere il Dna dei pre-nuragici». Questo only connect (come diceva E. M. Forster), questo connettere tutto (genere giallo, idiotismo linguistico, ironica ricognizione antropologica), se si vuole da modernissima satura lanx, resta ancora oggi una delle migliori risorse del romanzo. Infatti, come si legge poco prima, secondo i codici della più generale teologia suina di Némus, «il romanzo è come il porco. Non si butta via niente. Mal che vada si ricicla».Gesuino Némus I BAMBINI SARDI NON PIANGONO MAIElliot - Pagine 192 - Euro 17,50

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: