«Ciò che m’interessa è la metafisica, tanto in filosofia, come in letteratura. Per questo l’elemento spirituale e lo sfondo metafisico sono stati sempre importanti nei miei romanzi. Lo devo forse a un’affinità intima, poi maturata anche attraverso le letture, in particolare dei grandi russi o di certi autori americani che hanno associato riferimenti biblici e drammi ordinari del presente». Il romanziere corso Jérôme Ferrari ha appena vinto il prestigioso Goncourt con l’intenso
Le sermon sur la chute de Rome (Il sermone sulla caduta di Roma, Actes Sud; in uscita in Italia a marzo da e/o), storia di due giovani che sperano di ricostruire un mondo ideale in un piccolo bar della Corsica. Insegnante di filosofia, Ferrari ha imparato a mettere la scrittura al riparo dai vecchi schematismi ideologici di sartriana memoria che hanno a lungo condizionato la scena letteraria francese.
Il titolo e i capitoli del suo romanzo si riferiscono a sant’Agostino, sotto la cui tutela sfila la trama. Perché questa scelta?«Ciò che mi ha sempre affascinato, nel suo celebre sermone sulla caduta di Roma, è che sant’Agostino non parla di questo collasso come di un evento storico straordinario, ma come di una realtà immanente, implicita nella condizione umana e dunque in fondo comune, quasi ordinaria e banale. Si tratta per lui dell’ennesima prova che tutte le realizzazioni umane sono comunque destinate a una fine».
Pare ordinario anche il luogo centrale del romanzo, un bar dell’entroterra corso. I suoi romanzi ruotano spesso attorno ai bar...«Sì, perché il bar è un mondo in sé che si nutre spesso di personaggi apparentemente non destinati ad incontrarsi. Fin da adolescente, sono rimasto affascinato dall’atmosfera dei bar nei villaggi corsi, dove s’incrociano origini e ceti diversi. È poi anche un luogo che richiama in modo forte le idee cristiane di peccato e di caduta, di compassione e di redenzione».
A proposito di peccato e di bar, anche il suo bar è ai piedi di una montagna, come quelli del capolavoro "Sotto il vulcano", di Malcolm Lowry...«È vero. Devo dire che questi legami mi sono sempre parsi evidenti. Ciò che più mi affascina nell’idea cristiana del peccato è che essa riguarda proprio tutti, è una fragilità intima e indissociabile dalla nostra condizione. Certo, esistono pure la crudeltà e la malvagità, ma accanto a ciò sopravvive in ogni caso nell’uomo uno strato irriducibile. Sant’Agostino è riuscito a trasmettere ciò come pochi altri. Tutto ciò che è terrestre porta in sé la propria caducità».
Nel Vangelo di Giovanni, ricordando che non apparteniamo al mondo, Gesù sottolinea che, in caso contrario, "il mondo amerebbe ciò che è suo". La consapevolezza di questo disamore sembra risuonare molto alla fine del suo romanzo...«Assolutamente. Questo conflitto con il mondo, con un territorio, è per me essenziale. Personalmente, non mi sento di poter prendere posizione in questo eterno conflitto. Dunque, se rileggo la fine del romanzo, il senso mi pare soprattutto che possiamo consolarci di questo conflitto con il mondo solo relativizzando il mondo, in un certo senso deprezzandolo. Non sono affatto sicuro che si tratti della migliore soluzione, ma è almeno una soluzione che oggi merita di essere compresa. Per sant’Agostino, evidentemente, i continui crolli del mondo sono superati dalla prospettiva della vita eterna. E dunque possiamo accettare il mondo anche alla luce di ciò che ci detta la fede. Ma persino in uno spirito come sant’Agostino, pare abitare a tratti l’ombra di un dubbio, che è esso stesso un riflesso della nostra caducità continua».
L’odore di santità, come gli odori forti del suo bar, vanno oltre la visione e le immagini, ma lei inaugura il romanzo con la scena di un uomo che si aggrappa a una vecchia foto ingiallita, l’unica traccia della sua famiglia inghiottita dall’oblio...«Anche nella visione sensibile, vi è sempre qualcosa di più di ciò che si vede immediatamente. Marcel guarda e riguarda la foto e in fondo ciò che lo colpisce di più è ciò che non vede nella foto. Per lui, la foto è soprattutto il simbolo di un’assenza. Ciò che ha davanti agli occhi è un mosaico di macchie di nero, grigio e bianco. Anche per me, è sempre lo sguardo umano che dà un contenuto a un’immagine come una fotografia. Da sola, una foto è un oggetto morto».
Il suo è anche un romanzo sul bisogno di credere?«Sì e in modo assolutamente consapevole. Mi interessa il legame, talora la tragedia, fra il nostro bisogno strutturale di credere e la nostra frequente incapacità di credere. Anche come professore di filosofia, non credo al superuomo nicciano. Per me, gli uomini sono fragili ed hanno bisogno di credere in qualcosa, di proiettarsi sempre in una forma di trascendenza, anche se oggi non sembra affatto facile, o almeno il contesto europeo non pare propizio a ciò».
Senza considerare il suo stesso nome di famiglia, nel suo romanzo pullulano i toponimi italiani: Roma, la Sardegna, Montecassino. Un caso?«La Corsica appartiene culturalmente all’area italica. Si tratta di un mero fatto, ancor prima di parlare di politica o altro. Appartiene a quest’area per via della lingua, del modo di comportarsi o ancora della sua storia migratoria, dati gli enormi scambi con la Sardegna, senza dimenticare l’immigrazione toscana in Corsica d’inizio Novecento. In effetti, lo dicono anche il mio cognome e quelli di tanti altri corsi. Essendo uno dei tratti caratteristici della Corsica, è naturale che ciò confluisse nel romanzo. Per me, recarmi in Italia non ha mai rappresentato uno spaesamento».