Teologi, aprite gli occhi. Sembra essere questo il messaggio che Francesco Brancato affida a
Immaginazione divina. La storia della salvezza come opera d’arte (San Paolo, pagine 288, euro 26,00), volume in cui, con un autentico
tour de force, ripercorre antico e nuovo Testamento ma anche le riflessioni attorno alla Vergine, ai santi e alla “Chiesa trionfante” con 270 opere dagli albori dell’arte cristiana a oggi, in un cammino parallelo. Non è però semplicemente un problema di illustrare la storia sacra, ma di gettare una luce che gli strumenti della teologia non sanno produrre. «È una questione di linguaggio – dice Brancato, docente ordinario di Teologia dogmatica presso lo Studio teologico San Paolo di Catania –. Quello dell’arte è un magistero a sé non si pone semplicemente “al servizio” della parola ma le rende un servizio. Come suggerisce Paul Valéry, il pittore non dipinge quello che vede ma quello che si vedrà». Il volume segue
Teologia e arti visive e
L’ombra delle realtà future («Va letto in continuità con questi due», spiega l’autore) ed è un invito a «uscire» e «contaminare», per attivare in modo virtuoso un dialogo che rompe certezze: «Il dialogo tra arte e teologia avviene quando la prima entra nel discorso della seconda e lo problematizza, lo rende più complesso. Lo dice Rilke nella
Lettera a un giovane poeta: l’arte non risolve i problemi ma li rende più acuti. Le opere di Munch o Giacometti, pure quando il soggetto non è sacro, riescono a dire una verità anche religiosa che la teologia non dà. Pensiamo, ad esempio, alla cupola di San Giovanni Evangelista a Parma, del Correggio. Vediamo un Cristo sospeso nella gloria del cielo, e sembra allo stesso tempo ascendere e ritornare. È un tipo di verità che solo l’artista può restituire in modo sintetico e intuitivo. Il teologo può farlo soltanto attraverso molte parole».
In copertina c’è la Pietà Rondanini di Michelangelo. Perché? «È l’opera che chiude il volume e ne determina la chiave di lettura. L’ho scelta perché non è un’opera incompiuta ma un’opera aperta, densa di possibilità ma anche di domande. Non è possibile pensare alla storia della salvezza come un’opera compiuta. Certo, la salvezza si è compiuta nella venuta di Cristo. Mantegna dipinge Gesù bambino come epicentro della storia: un bambino in un cesto di vimini, posto in un lettuccio di erba verde, soffice come quella della primavera. Ma la
Pietà Rondanini, la cui bellezza sta nell’essere indefinibile, ci ricorda che la storia della salvezza è consegnata nelle nostre mani. La domanda che Gesù pone nel vangelo di Luca nel capitolo 18, “Quando il figlio dell’uomo verrà, troverà fede sulla terra?”, accostata all’opera di Michelangelo diventa inquietante. Qualche tempo fa leggevo un commento al Siracide in cui don Divo Barsotti osserva che per gli ebrei la festa più grande non è nemmeno la Pasqua ma il Kippur. La Pasqua, infatti, è memoria dalla liberazione dall’Egitto mentre il Kippur introduce con il perdono di Dio nell’era escatologica, la vittoria con la misericordia sul peccato del popolo. Ecco perché l’opera non è conclusa: ci apre a qualcosa che ancora deve avvenire. È la speranza per il futuro».
Lei parla della «storia della salvezza co- me opera d’arte». Qual è lo strumento con cui il Dio creatore modella la storia? «È la misericordia. Thomas Merton osservava che la vita sfugge tra la mani, ma può sfuggire come sabbia o come semente: la differenza la fa la misericordia, che fa nuove le cose. È lei la virtù del Dio artista. Le immagini portano ai nostri occhi la manifestazione della misericordia di Dio: una misericordia “fantastica”, perché Dio esercita la sua fantasia attraverso gli uomini peccatori. Sono tante le storie di salvezza con al centro personaggi problematici. Pensiamo a Davide, Pietro o addirittura tutto il popolo nell’episodio del diluvio universale. La fantasia divina è insuperabile. Solo un artista ha potuto creare questa storia. E noi siamo qui per contemplarla. L’arte è testimone di una bellezza cristiana che si è fatta carico anche delle brutture. La bellezza è il lutto cambiato in gioia. Cosa può liberare e riscattare l’uomo? La bellezza della misericordia».
È cambiato, e come, il rapporto tra arte e teologia? Quest’ultima ricorre alla prima più spesso del passato? «Rispetto alla seconda parte della domanda la risposta è no, e aggiungerei: purtroppo. Un tempo c’era una forte alleanza, alla quale come sappiamo è seguito un divorzio. Oggi però assistiamo a un nuovo riavvicinamento, ma come tra persone mature. Si sta registrando un percorso positivo. La teologia non si accosta più all’arte perché possa essere la Bibbia dei poveri: se l’opera d’arte è autentica non mi aiuta a capire meglio ma pone interrogativi. Pone con evidenza la differenza di visioni antropologiche. Oggi rispetto al passato il confronto è più alla pari: l’arte non si accontenta più di essere di aiuto, un’ancella della teologia, ma ha una parola propria e la sa dire. È un sismografo, sa catturare la situazione corrente. Rappresenta la frammentarietà del presente in modo interessante. La teologia deve farsi interrogare dall’arte. Questa è un ministero con una sua dignità, gli artisti hanno un ruolo. Non servono solo perché il discorso teologico sia più bello o condito. Su questo tutti i papi da Paolo VI in poi sono stati chiari. Dal mio punto di vista preferisco la situazione attuale: la teologia deve fare uno sforzo per riconoscere la ricerca di senso, o anche la dichiarazione di non senso. Inutile cercare di convertire Bacon o Hopper. Il dialogo se sincero deve portare a conclusioni anche scomode da parte della teologia».
E l’arte come dovrebbe guardare alla teologia? «Come la teologia non può pensare di chinarsi verso l’arte, così gli artisti non devono chiedere ai teologi semplicemente supporto o aiuto. Mi auguro che l’arte non desideri di tradurre in immagine ciò che è teologia, né che la teologia renda in modo discorsivo l’arte. Non è una sfiducia nella parola. Ma l’arte è un testo che sa già dire tanto. L’immagine ritorna nella mente, ed è generativa della parola. Quella che è un’immagine può tradursi in discorso, in comunicazione: è difficile che uno veda una mostra in compagnia senza cercare di condividere impressioni e emozioni. L’arte alimenta la relazione. Non è un’alternativa tra parola e immagine: è immagine che produce la parola e la parola balbettando cerca di rendere quella che è l’immagine. Gli artisti usino il loro strumento per porre domande al mistero».