Da almeno tre decenni i sociologi ci ripetono che qualcosa è cambiato nel mondo delle religioni mondiali. Il panorama globale della religiosità o delle singole fedi sembra aver vissuto una vera e propria inversione di tendenza rispetto a coloro che fino agli anni Settanta preconizzavano il ridimensionamento del fatto religioso o la sua inevitabile ritrazione nella sfera dell’intimità domestica e della dimensione privata. Se sussiste dunque una novità che è allo stesso tempo una peculiarità dell’attuale contesto religioso globale, questa coincide con un ritrovato protagonismo pubblico delle fedi.
Sembra infatti profondamente mutato il ruolo o la presenza del religioso all’interno degli spazi comunicativi globali. Allo stesso tempo però si sbaglia chi considera questa nuova fase come un “ritorno di Dio”, ovvero come un mero recupero di alcuni schemi e strumenti con cui le fedi istituzionalizzate hanno attestato la loro presenza sulla scena pubblica fino alla tarda modernità. Ecco perché nell’ambito degli studi sul religioso ormai da diversi anni circola insistentemente una categoria come quella di postsecolarismo. Con questo concetto si vuole indicare una rottura rispetto all’epoca comunemente percepita come secolare.
Ciò che questo termine comporta è dunque qualcosa di molto lontano dalla proclamazione, con toni revanscisti o al limite del trionfalismo, di una nuova attestazione del religioso all’interno dell’ordine pubblico globale. Il postsecolare è in grado di rappresentare un comune riferimento di partenza per fiutare i tratti inespressi o nascenti nel paesaggio delle religioni mondiali. Più che una funzione rigidamente attestativa sulla condizione presente delle singole religioni, il postsecolare esercita un ruolo introduttivo nei riguardi dell’attuale panorama delle fedi e dei relativi contesti sociali. L'idea di postsecolarismo identifica infatti non tanto una tesi assertiva sul ritorno del sacro nel cuore del villaggio globale e postmoderno, bensì un clima ancora da respirare o un ambiente con cui abbiamo da poco familiarizzato e che dobbiamo ancora imparare ad abitare. La scena inaudita e per molti versi inaspettata che il postsecolare dischiude è quella di una nuova condizione pubblica delle fedi. Tanto le religioni storiche mondiali, quanto le comunità religiose di nuova fondazione stanno maturando linguaggi e stili inattesi all’interno della scena pubblica globale: scandagliare e comprendere questa presenza è al contempo monito e compito degli studi sul postsecolare.
È possibile, oltreché necessario, individuare i termini storici della condizione postsecolare o almeno collocare una soglia temporale che ne attesti l’inizio. Diversi studiosi hanno infatti parlato degli “anni Ottanta della religione” individuando in quel decennio alcuni diffusi movimenti o sommovimenti all’interno di contesti religiosi e sociali molto diversi tra loro. José Casanova, ad esempio, nel suo celebre saggio Oltre la secolarizzazione. Le religioni alla conquista della sfera pubblica, ha individuato proprio in quegli anni alcuni eventi-chiave in funzione dei quali indagare il postsecolarismo. Egli parla infatti di quattro avvenimenti divenuti ormai un esempio ricorrente ogni qual volta si parli della condizione postsecolare: «La rivolta islamica in Iran; lo sviluppo del movimento Solidarnosc in Polonia; il ruolo svolto dal cattolicesimo nella rivoluzione sandinista e in altri conflitti politici che hanno interessato l’America Latina; il risveglio del fondamentalismo protestante come forza operante nell’ambito dell’arena politica degli Stati Uniti». È evidente come questi eventi descrivano innanzitutto le reciproche implicazioni tra la sfera religiosa e quella politica all’interno di alcuni contesti nazionali. Quelli citati da Casanova sono infatti degli accadimenti che sembrano quasi esclusivamente rimandare a una rilevanza politica di alcuni movimenti di ispirazione religiosa. L’analisi deve in realtà andare oltre e individuare negli anni Ottanta un laboratorio pubblico globale in cui i linguaggi delle religioni e sulle religioni si sono differenziati, arricchiti e moltiplicati. Tutto ciò non è scaturito esclusivamente dalla dissoluzione del mondo bipolare o delle ideologie politiche che al suo interno ne identificavano gli individui e le masse. Che cosa dunque è cambiato? Probabilmente il modo stesso delle religioni di attestare e interpretare la propria presenza nei discorsi pubblici e nell’autocomunicazione di sé. Per il mondo cattolico ciò ha rappresentato una consapevolezza che si è tradotta e si sta ancora traducendo in uno stile ecclesiale: quello per cui le consapevolezze della fede non si maturano prima o a prescindere dai discorsi pubblici, ma si acquisiscono e si chiariscono nell’esercizio stesso del dialogo condotto anche con chi non crede o crede diversamente da me. Tutto questo ci porta a chiarire un ulteriore elemento: la condizione postsecolare non è riducibile all’attuale scenario comunicativo delle fedi, ovvero alla loro capacità di presentarsi sulla scena politica come soggetti semplicemente impegnati in imprese di argomentazione pubblica.
Benché questo non vada escluso, è necessario prestare orecchio alle pratiche già diffusamente in atto all’interno del mosaico religioso globale e che stanno ridisegnando il lessico della presenza pubblica delle fedi. Un lessico che non ricorre, come del resto è accaduto anche in altre epoche, esclusivamente al medium linguistico-argomentativo. Un lessico che non è possibile fino in fondo definire e comprendere neanche alla luce del solo linguaggio simbolico o del ricorso, da parte di comunità o istituzioni religiosi, all’efficacia identificante e aggregativa dei simboli. Ciò che sta accadendo nella nuova collocazione pubblica delle fedi, e che potremmo definire ricorrendo all’idea di postsecolare, riguarda le pratiche o i processi collettivi in atto che si stanno dischiudendo da più parti. Sono processi non esclusivamente dialogici o di discussione, ma imprese condivise in cui si avviano movimenti che possiamo definire sociali poiché scaturiscono dalla convergenza di più sguardi credenti. Tutto questo sembra essere in sintonia con lo stesso sguardo ermeneutico di Francesco quando, parlando della superiorità del tempo sullo spazio, scrive che «dare priorità al tempo significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che generano dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici. Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci» ( Evangelii gaudium, 223).