giovedì 3 dicembre 2015
COMMENTA E CONDIVIDI
Era appena trascorso il “lungo inverno del ’43” culminato con lo sbarco degli Alleati e la cacciata dei nazisti. Al Nord ancora si combatteva. L’Italia era ridotta a un «costume d’Arlecchino», come diceva Roberto Rossellini che ne voleva raccontare al mondo la paura, la fame, ma anche la voglia di redenzione. Per le strade della capitale c’erano ancora le macerie dei bombardamenti e i segni, anche morali, dei violenti scontri tra partigiani e tedeschi. Roma città aperta doveva essere, nelle prime intenzioni, un documentario sulle figure di don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo, preti romani trucidati dai tedeschi per aver aiutato i partigiani. Ma si trasformò un film di narrazione, in una storia che fece commuovere l’America e il resto del mondo. Un film volutamente ricco di presenze evangeliche. Un “film cristiano” realizzato da un regista che si professava ateo... La prima stesura, scritta da Alberto Consiglio, aveva come titolo La sconfitta di Satana proprio per rimarcarne la componente religiosa, un messaggio di speranza necessario alla ricostruzione morale del Paese. Lo scopo era anche quello di mostrare le nefandezze del nazismo, l’Anticristo che veniva sconfitto dalla Chiesa attraverso la testimonianza e il sacrificio di un suo ministro, quel don Pietro Pellegrini (Aldo Fabrizi) così uguale, anche nelle parole, a don Morosini, fucilato alle spalle dal plotone di esecuzione (anche se fu soltanto ferito e fu necessario il colpo di grazia) per essere stato vicino alla gente, per averla amata e protetta in nome di Dio. Nella sceneggiatura definitiva la “vocazione” mistica del film appare evidente. Ecco come nello script si descrive la scena finale, dopo la drammatica uccisione di don Pietro: «I bambini (che assistono alla fucilazione dietro a un reticolato, ndr) si ricompongono, si riprendono, accelerano il passo. Lo sconforto scompare dai loro volti per lasciare il posto a una luce fredda, limpida, chiara come quella del sole che illumina ora la cupola di San Pietro». I ragazzini dell’oratorio sono consapevoli che lì, all’ombra del simbolo della Chiesa universale, possono trovare la carezza di cui hanno bisogno.  Una speranza si apre davanti a loro, come appare, emblematicamente, anche dall’ultima inquadratura, un dettaglio, un colpo da maestro di Rossellini: la cinepresa fa una panoramica partendo dai tetti di Roma per arrivare fino alla cupola, l’origine della speranza. La critica marxista diede alla mesta ritirata dei bambini, un’interpretazione materialista: mancava la lotta, la ribellione del corpo, vincevano la prepotenza e la morte... Ma è la fede che, nel giudizio, fa la differenza. «I riferimenti o i parallelismi cristiano-evangelici sono l’asse portante della posizione morale assunta da Rossellini nel film», commenta lo studioso Flaminio Di Bia- gi nel libro La Roma di Roma città aperta (Palombi editori, 160 pagine, euro 14). Il film è genialmente disseminato di questi segni. La basilica di San Pietro, il cuore della cristianità, è vista come lo sguardo di Dio sotto il quale si dipanano le vicende del parroco, del partigiano Manfredi e di Pina (Anna Magnani) colpita dalla mitragliata di un nazista mentre corre gridando il nome del suo amato Francesco arrestato dalle Ss (è la storia vera della popolana Teresa Gullace); il protagonista è un prete che si chiama Pietro (come don Pappagallo ma anche come l’apostolo); i tre morti del film sono dei martiri, testimoni della libertà e dell’amore per gli altri; la sacra famiglia viene riproposta nei personaggi di Francesco, umile lavoratore e padre putati- vo di Marcello, e la “sora Pina”, madre in attesa non ancora sposata. C’è anche chi ha visto nell’immagine di don Pietro chinato sul cadavere di Pina una riproduzione della Pietà, ma a ruoli invertiti. Non manca il simbolo dell’agnello di Dio: due tedeschi si presentano in una trattoria con una coppia di pecorelle dicendo di essere degli specialisti nel “macellare sul momento”… Il nome Episcopo (vescovo) è la falsa identità che il partigiano fornisce ai nazisti, mostrando il documento che gli aveva procurato il prete (come faceva don Pappagallo). I ragazzini che assistono alla fucilazione del loro parroco e poi scendono verso Roma sono dodici, come gli apostoli. La figura del traditore, “il giuda”, coincide col personaggio di Marina che svela ai nazisti il nascondiglio del capo partigiano in cambio di droga e pellicce. E, infine, ecco il richiamo alla Crocefissione: durante la tortura, Manfredi è legato al muro con le braccia distese mentre un soldato lo colpisce al costato con un lanciafiamme (come il centurione con Gesù) poi viene sciolto dai lacci e “deposto” col corpo e il volto tumefatti e pieni di sangue. Anche le parole di don Pietro sono sferzanti testimonianze, di un’attualità sconvolgente: «Io sono un sacerdote cattolico e credo che chi combatte per la giustizia e la libertà cammini nelle vie del Signore, e le vie del Signore sono infinite». Fino alla frase pronunciata in punto di morte: «Dio, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Roma città aperta non è la storia di una sconfitta ma un messaggio di speranza che serve anche oggi.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: