Ansa
Sanremo 1970, XX edizione del Festival della canzone italiana: sul palco per cantare Pà diglielo a Mà sale il sedicenne «Rosamare Cellarino». Così annuncia al microfono l’avvenente attrice Ira von Fürstenberg. Il ragazzo, all’anagrafe risulta Rosalino Cellammare, ma da allora è semplicemente Ron. Talento precoce del cantautorato italico, uno che a 19 anni con l’amico fraterno Lucio Dalla aveva già scritto Piazza Grande («Al Sistina la cantò la regina del fado Amalia Rodriguez», annota Ron nella sua autobiografia Chissà se lo sai. Tutta una vita per cercare me, Piemme), aveva composto con Dalla la colonna sonora del film La mortadella di Mario Monicelli e pubblicato il suo primo album Il bosco degli amanti.
Quando nel ’79 con Dalla e Francesco De Gregori si imbarcò nel mitico tour Banana Republic, nelle città in cui Ron andava per cantare si presentava già come un giovane veterano. Ed è invece con lo spirito del veterano giovane che nel 2017 si affaccia al suo settimo Festival con L’ottava meraviglia. Brano inserito nel doppio cd La forza di dire sì.
Una raccolta di successi e una partecipazione sanremese dal significato particolare...
«È la riproposta di un progetto del 2005, il disco Ma quando dici amore che uscì in allegato con il Corriere della Sera e il cui ricavato servì a raccogliere fondi per i malati di Sla (Sclerosi laterale amiotrofica). Quel disco andò molto bene – oltre 150mila copie vendute – mentre quest’ultimo è una riedizione con in più il brano di Sanremo. E io spero tanto che proporne un “pezzo” mi dia la possibilità di entrare nelle case degli italiani e di far conoscere meglio questa malattia e tutti quei miei “eroici amici” che la combattono quotidianamente».
Uno di questi suoi amici è Mario Melazzini, presidente dell’Aifa e fondatore di Aisla e Arisla.
«Mario è un essere speciale. Mi ha cambiato la prospettiva, mi ha fatto capire che la priorità non è più andare in classifica con un nuovo disco o soffrire, come facciamo un po’ tutti, per l’assurda ansia da prestazione... E questo perché Melazzini, come ogni malato di Sla che ho conosciuto e che mi ha aiutato a “ripulirmi dentro”, è un uomo perennemente positivo e mai triste. Dodici anni fa con lui e Renato Zero girammo un videoclip a Milano, nel chiostro di Santa Maria delle Grazie, in cui prendemmo un impegno: “Troviamoci tra dieci anni per vedere a che punto saremo con la nostra lotta alla Sla”. È per questa promessa che ora risalgo sul palcoscenico del Teatro Ariston per dire a tutti: diamo una mano alla ricerca, cerchiamo di trovare un “vaccino” che guarisca migliaia di persone da questo morbo».
Nel 2014 infatti sembrava avesse detto addio per sempre a Sanremo: non si sentiva più garantito da quello che – scrive nella sua autobiografia – «è sempre più un programma musicale televisivo fra i tanti, quasi un talent show».
«Non ero abituato alla formula delle due canzoni. Fabio Fazio era rimasto affascinato dal mio Un abbraccio unico e invece poi la giuria scelse Singing in the rain... Ci rimasi male, non è un brutto brano, io sono sempre stato molto attento nella scelta delle canzoni, solo che, a differenza di Un abbraccio unico non esprimeva a pieno quello che da sempre è il mio universo».
Pippo Baudo a proposito di Joe temerario disse che la bontà delle sue canzoni si riconosce dall’espressione dei suoi occhi. Che sguardo ha dopo aver inciso L’ottava meraviglia?
«Uno sguardo convinto, forte. Provo un’emozione travolgente nel cantarla: è una canzone piena di sentimento e di speranza. La crisi che, da anni, stiamo subendo, è prima di tutto dentro di noi: siamo impauriti, viviamo stancamente insoddisfatti, rosi dall’incertezza del domani... La tecnologia è uno specchietto per le allodole, la velocità della comunicazione non vuol dire che comunichiamo meglio, anzi siamo tutti un po’ più soli davanti a un computer».
Ma la musica, le sue canzoni e quelli dei cantautori della sua generazione per molti rappresentano una terapia, anche alla solitudine.
«Molti mi hanno confidato che le loro storie d’amore e d’amicizia si sono salvate con Non abbiam bisogno di parole. Ascoltando Vorrei incontrarti fra cent’anni i fidanzati si sono sposati e hanno fatti figli - sorride - La musica bella, di qualsiasi genere, aiuta a stare meglio, poi per vivere bene serve prendere alla lettera l’insegnamento di Gesù: “A ciascun giorno la sua pena”. Quindi non affannarsi e vivere alla giornata in grazia di Dio».
Questo necessita di un atto di fede significativo.
«Il mio percorso spirituale deve tanto all’incontro con padre Silvano Fausti. Non sono mai riuscito ad avere un rapporto davvero diretto con lui, lo vedevo così in alto... Quando lo incontravo a Villa Pizzone arrivavo lì sempre un po’ svuotato, ma poi me ne tornavo via dissetato».
Una spiritualità laica che da sempre affiora nei suoi testi e che le fa difendere la vita dalla minaccia dell’eutanasia.
«Il mio no all’eutanasia si scontra con il fatto che anche a rischio di apparire banale io credo fortemente nei miracoli. Il mestiere di cantautore mi permette di sognare e di credere che il mondo è meno “nascosto” di quello che ci appare, e allora vale la pena guardarci dentro fino alla fine dei nostri giorni».
Perle di saggezza che regalerà anche agli allievi delle sue scuole musicali di Garlasco e Vigevano...
«No, con i miei ragazzi parliamo essenzialmente di musica, della necessità di imparare a suonare uno strumento e soprattutto di tornare a scrivere i testi delle canzoni. Con i talent show abbiamo perso una generazione di potenziali autori. Circolano tante bellissime voci (Annalisa, con cui farò la serata dei duetti a Sanremo, è fantastica) ma sono sacrificate al ruolo di replicanti: in tv gli fanno cantare solo cover e per lo più di band inglesi. C’è una ragazzina di 16 anni nella mia scuola che quando è arrivata non metteva assieme quattro accordi in croce, ora suona e ha buttato giù un testo bellissimo... Il mio sogno è scovare presto una nuova Nora Jones».
Maria De Filippi nuova regina dell’Ariston, al fianco del re Carlo Conti, insegna però che ormai i talenti sbocciano solo nei reality show.
«Io invece dico che il futuro è dei giovani artisti che crescono e si esibiscono ancora sul palcoscenico più autentico e duro che ci sia, la strada. Di recente alla stazione Centrale di Milano ho ascoltato un pianista eccezionale... dopo pochi minuti che suonava ha attirato una folla incredibile e un distinto signore straniero, entusiasta, gli ha messo un biglietto in mano. Pochi giorni dopo l’ho riconosciuto su una foto di giornale in cui si parlava di un suo concerto in una sala importante di Copenaghen. Ci sono ragazzi che ce la stanno mettendo tutta per non tradire la strada, vogliono arrivare ma senza dover passare per le scorciatoie che impongono la tv e le case discografiche che spesso tarpano le ali alla creatività e alla curiosità di sperimentare».
Lei dice ai ragazzi che vogliono vivere di musica che si può smettere di cantare, ma non di scrivere canzoni. Ma per far questo c’è bisogno di leggere...
«La lettura è sinonimo di cultura. Per Tosca riadattai un testo bellissimo di Susanna Tamaro che divenne un brano sanremese,
Nel respiro più grande. Non ha avuto il successo che meritava, ma è frutto di un lavoro culturale che ci ricorda quanto possiamo essere padroni delle parole che diciamo e che cantiamo».
Le canzoni di Lucio Dalla lei era il primo ad ascoltarle...
«Lucio telefonava nel cuore della notte e dall’altra parte della cornetta sentivo solo il suo pianoforte... Ricordo quando mi accennò Caruso... scoppiai a ridere: ma dai - gli dissi - non puoi cantarla in napoletano, che roba è? E lui quando ascoltò Non abbiamo bisogno di parole mi disse che non sarebbe piaciuta, meglio buttarla via... - sorride - Ci stroncavamo a vicenda con Dalla, ma ognuno si fidava del giudizio dell’altro perché era un invito a limare, a fare di un buon testo grezzo una grande canzone che restasse nel tempo. Oggi è difficile fidarsi di qualcuno... Qualsiasi cosa fai ti dicono “Fantastico!”. Ma tu ci credi?».