Colpisce, nelle risposte di Liliana Cavani a questa intervista, il ruolo da lei affidato – dentro l’universo della fede – alla ricchezza dello Spirito, che «soffia dove vuole» e non fa certo distinzione né di razza né di genere. Pensare, da laica cresciuta in un ambiente familiare ateo, a quella dimensione marcatamente spirituale che il cattolicesimo dovrebbe ancora meglio recuperare, affascina molto più, che rincorrere gli stanchi slogan di tante femministe, quelle che continuano a vedere la Chiesa solo come istituzione di potere, da combattere perché maschilista e sessuofoba. Ciò nonostante, l’appello solo teorico al genio femminile, il richiamo più formale che sostanziale ai valori che la donna suscita, non fanno che riprodurre – a suo vedere – l’immagine tradizionalista della Chiesa cattolica, radicata sulla rigidezza della tradizione e su di un testo sacro, la Bibbia, che rimanda ad una visione ancestrale del potere maschile, in cui la donna, più che essere vista in un ruolo subordinato, è equiparata ai possedimenti del padrone, insieme alle pecore e ai figli.Non servono molte competenze esegetiche e teologiche per ribattere a questa obiezione della regista; solo la considerazione che un testo antichissimo, come la Sacra Scrittura, frutto di rielaborazioni millenarie e di sedimentazioni culturali e storiche, non va certo letto come un quadro di riferimento antropologico o sociale o come un manifesto maschilista e antifemminista, ma solo interpretato nelle sue provocazioni etiche e religiose. Anche la visione della Cavani sulla figura di Maria, vista soprattutto come «madre» e dunque solo nella sua funzione ancillare nei confronti del Figlio, non esaurisce tutte le sfaccettature di quella vicenda umana, così come raccontano i Vangeli, quando – ad esempio –mostra una sua vita di affetti e di legami (la visita ad Elisabetta), quando ascolta incredula e con sgomento che suo figlio non riconosce più completamente la sua esclusiva maternità, quando nel buio della fede accoglie la morte fra le sue braccia.Alla regista, comunque, sta a cuore focalizzare un altro punto di estremo interesse: la Chiesa ancora non riesce a comprendere sino in fondo la ricchezza e le potenzialità della donna, tradendo in tal modo la sua dimensione «cattolica», dunque universale, chiudendo gli occhi verso quell’ampia porzione di umanità che continua non a richiedere «pari opportunità» (come il sacerdozio femminile), ma di sicuro «pari dignità». Affermazione forte, quest’ultima, e un poco ingenerosa, visto lo sforzo degli ultimi due Pontefici – Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – per guadagnare una visione positiva del femminile e delle sue potenzialità in ambito ecclesiale e nella sfera sociale e politica. Basta pensare a quella pietra miliare costituita dalla
Mulieris dignitatem del 1988, sino alla
Lettera sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, scritta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nel 2004; dopo queste dichiarazioni – e moltissime altre ancora –sul pari valore della donna e dell’uomo e sulla loro reciproca dignità, niente è stato più come prima e non ci si è certo fermati alle mere dichiarazioni di principio. Forse pochi sanno che dal 2007 è in corso in Vaticano quella che è stata definita la «rivoluzione rosa»: sono più di 500 (delle quali 360 laiche e sposate e su di un totale di 2000 dipendenti) le donne impegnate nella Curia in compiti di responsabilità. Undici lavorano nella segreteria di Stato vaticana, cinque al dicastero della Dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio. Nella biblioteca apostolica ce ne sono 35 e 23 alla Radio vaticana. La storica Barbara Frale lavora nell’Archivio segreto del Vaticano, che contiene mille anni di documenti in 80 chilometri di scaffali… Non solo ruoli subordinati, ma donne con diversi livelli di responsabilità, come la salesiana Enrica Rosanna, sottosegretaria della Congregazione per la Vita Consacrata; Flaminia Giovanelli, «numero tre» del Pontificio consiglio Iustitia et Pax, la statunitense Mary Ann Glendon, presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali. O, ancora, la norvegese Janne Haaland Matlary, già vice-ministro egli esteri del suo Paese, e membro di due importanti uffici vaticani. Certo, si potrebbe fare di più, visto che i ruoli più alti dei dicasteri vengono comunque ricoperti solo dalle gerarchie ecclesiastiche. C’è dunque da augurarsi che una schiera sempre più ampia e attiva di donne dentro il Vaticano accompagnino con dignità e responsabilità il lungo cammino della Chiesa verso nuove mete di promozione umana e sociale.