E' una «rivoluzione strisciante: un tempo erano considerate zone da cui fuggire, poi ci si è resi conto che sono piene di potenzialità ». Fulvio Irace, docente di Storia dell’architettura al Politecnico di Milano, parla delle periferie. Con entusiasmo. Le aree viste come ricettacolo di degrado assumono una nuova veste, lontana dalla vulgata ripetuta sotto etichette quali «affollamento, mancanza di servizi, aree dormitorio, ecomostri».
Ma come, non sono zone di espansione sorte in fretta e senza criterio? «Nella storia, periferia è là dove la città si dilata: al centro si trovano valori e tradizioni, al suo intorno i luoghi secondari dove affluiscono masse di lavoratori attratti dallo sviluppo delle industrie. Ma proprio per questo l’urbanistica dell’800 le considera espressione della città nuova, dove si manifesta il progresso tecnologico. Paradigmatici sono i progetti urbani studiati dalla metà del XIX secolo da Georges Eugène Haussmann per Parigi, o da Otto Wagner per Vienna e da Ildefonso Cerdá per Barcellona. Non v’erano accezioni negative. Le nuove trame urbane erano ben organizzate, le architetture ben studiate e dignitose. A Milano avveniva lo stesso col piano di Cesare Beruto: tutte le zone dove trionfa il Liberty sono nate nella seconda metà dell’800. E restano come patrimonio rilevante per la città».
Ma c’erano anche zone povere, come quelle della prima Torino industriale dove Don Bosco accoglieva i ragazzini che vagavano scalzi... «Si può dire vi fossero due livelli: quello dei piani urbanistici, che richiedevano tempo e investimenti di lungo termine, e quello delle esigenze immediate di quel che si chiamava sottoproletariato e dava luogo alle baraccopoli. A Londra, antesignana dell’industrializzazione, questi quartieri furono descritti nei racconti di Charles Dickens e nei disegni di Gustave Doré: affastellati, marginali, crudeli. A fronte di quei problemi sociali sorsero provvidenze assai significative, come quelle attivate da Don Bosco ma anche da personaggi quali Moisé Loira che alla fine dell’800 in Milano diede vita alla Società Umanitaria, per permettere il riscatto sociale di ragazzi e adulti tramite l’istruzione. E nel XX secolo a Milano troviamo espansioni urbane come quella degli anni ’30-’50, che vide sorgere quartieri i cui standard erano paragonabili a quelli tedeschi o inglesi: viale Argonne per esempio. Isolati concepiti come piccoli castelli, quadrilateri con cortili dotati di spazi verdi, asili nido, lavanderie. Oggi si visitano come espressione di un grande passato. E questo vale anche per le espansioni del secondo dopoguerra, come il QT8 ricco di zone verdi e servizi, o il quartiere Feltre, articolatissimo con i suoi ampi spiazzi ed edifici che ben resistono nel tempo».
Allora ci dobbiamo completamente ricredere? «I loro problemi spesso non stanno nella progettazione, ma nella conservazione e nell’organizzazione sociale. Prendiamo le famigerate “vele” di Scampia, con i terrazzi a gradoni, i camminamenti esterni, i ponti di raccordo. C’è quel che racconta
Gomorra: abbandono, disordine; ma le architetture in sé non sono condannabili. A Pechino recentemente Steven Holl ha costruito un complesso simile, di torri raccordate da ponti, ed è considerato un capolavoro. Se le “vele” anziché a Napoli si trovassero a Montecarlo, sarebbero appropriate per un hotel di lusso. Il problema è che parliamo di edifici e aree urbane costruite settanta o più anni fa, che mai sono stati manutenuti. Lo stesso al Corviale, a Roma: un’opera che a suo tempo fu molto apprezzata da Manfredo Tafuri, uno dei massimi storici e critici dell’architettura. Sono opere che, come è avvenuto in Francia per le Unité d’Habita-È tion di Le Corbusier, andrebbero valorizzate, non abbattute. La politica allarmistica che, dato il degrado dovuto all’incuria, istericamente si lancia nella polemica e chiede che si faccia terra bruciata, non fa che causare danni. Era già successo a Matera negli anni Cinquanta, quando hanno strappato dai Sassi, effettivamente insalubri e degradati, i loro abitanti e li hanno portati in nuovi quartieri dove non si sono più sentiti a casa loro».
E oggi i Sassi, rinnovati, sono divenuti una zona di lusso... «Il degrado va affrontato non con la rottamazione, ma con la manutenzione. Aiutando gli abitanti a prendersene cura. È una grande lezione che ci viene dalle favelas brasiliane: se i governi brasiliani ciclicamente pensavano di abbatterle, gli abitanti si sono sempre rifiutati. Sono le loro case! E le abitano in modo comunitario: le stradine sono il salotto di casa e non c’è la solitudine cui siamo abituati nei condomini urbani, per quanto lussuosi siano. La socialità, e la capacità di operare sull’ambiente in cui si vive, è un valore fondamentale. Nelle favelas bisogna che l’amministrazione pubblica porti gli impianti atti a garantire le necessarie condizioni igieniche. Chi vi risiede può essere aiutato a migliorarle».
Questo approccio cooperativo è accettabile dai nostri amministratori pubblici? «Il problema è che ci sono regole stringenti e apparati burocratici che spesso frenano le iniziative e impediscono di valorizzare luoghi ed edifici. Bisogna lasciare un minimo di libertà. Tanto più nella città sempre più multietnica: non è detto che una famiglia del Bangladesh apprezzi la sistemazione dell’appartamento tipico italiano».
Da quando l’urbanistica ha rivalutato le periferie? «Il ripensamento è avvenuto per gradi: si è andata diffondendo la convinzione che alla tendenza di compiere grandi interventi, onerosi e di forte impatto, sia meglio sostituire la valorizzazione dell’esistente, le cui potenzialità spesso si rivelano anche solo con piccoli interventi. L’ha ben compreso Renzo Piano, col suo progetto per ricucire le periferie: quando ha visitato a Milano la zona del Giambellino con le sua case di edilizia assistita del periodo prebellico, ha constatato che poco sarebbe bastato per farle rinascere. Non è più tempo di abbattere per ricostruire. È tempo di gestire e valorizzare. Quel che si chiamava periferia può diventare la città del futuro».