Scudo etiope, dono di Yoannes IV a Umberto I, 1885 - “Africa. Le collezioni dimenticate”
C’è annidato al fondo della coscienza italiana la convinzione di un eccezionalismo, quello condensato nel motto “Italiani, brava gente” a cui Angelo Del Boca mise, quasi vent’anni fa, un bel punto di domanda. Come se la nostra storia coloniale possa essere stata meno vistosa rispetto a quella globale e intrisa al più di paternalismo. La realtà fu ben diversa e ciò che produsse costituisce un rimosso: popolare, politico e culturale. Per questo motivo “Africa. Le collezioni dimenticate” a Torino è una mostra di cui è impossibile sottovalutare l’importanza. Curata da Elena De Filippis, Enrica Pagella e Cecilia Pennacini, si segnala in particolare perché è una delle prime ad affrontare in modo diretto uno dei temi attualmente più caldi del dibattito museale e culturale a livello internazionale ossia quello della provenance, della provenienza dei beni in collezione.
Statuetta votiva, Congo, XIX secolo, collezione Gariazzo - “Africa. Le collezioni dimenticate”
Allestita nelle Sale Chiablese dei Musei Reali fino al 25 febbraio, è la restituzione di un lavoro durato due anni a partire dalle collezioni africane afferenti all’Armeria Reale e alle raccolte dei castelli di Agliè e Racconigi, oltre che sugli album fotografici della Biblioteca Reale di Torino e del castello di Racconigi. Si va dall’Ottocento degli esploratori e avventurieri, da quello degli ingegneri e burocrati che operarono al servizio di Leopoldo in Congo, alla spedizione di Luigi Amedeo sul Ruwenzori allo “Scramble for Africa”, la spartizione del continente, con l’Italia impegnata in sanguinose guerre di conquista in Eritrea, Etiopia e Libia, per arrestarsi alla proclamazione dell’impero nel 1936. Si tratta di centinaia di opere e oggetti sottratti all’oblio. Scudi di pelle di coccodrillo, coltelli da parata, feticci, decorazioni di masai, argenti. Dipinti, bandiere e avori. Finimenti d’oro e tamburi liturgici. Il cui splendore estetico finalmente non nasconde una storia stratificata e complessa.
«Tutto parte alcuni anni fa da un progetto di diplomazia culturale, in occasione del quale ci siamo trovati a disseppellire, letteralmente, le collezioni extraeuropee dei nostri depositi. Scoprendo che erano moltissime» spiega Enrica Pagella, che da pochi giorni ha concluso il suo incarico di direttrice dei Musei Reali di Torino. Sono collezioni che testimoniano la dimensione cosmopolita della corte sabauda e la fitta rete di relazioni diplomatiche già a partire dal Cinquecento: «La quantità e la varietà ci ha spinto a lavorare per focus temporali e geografici. Siamo partiti dagli oggetti. Li abbiamo restaurati, ne abbiamo identificato la provenienza. Abbiamo ricomposto i piccoli nuclei collezionistici, non di rado smembrati su più istituzioni museali, anche romane. Un grande lavoro di ricongiunzione sulla base degli elenchi e delle note archivistiche. E proprio attraverso questo lavoro ci siamo resi conto di un contesto inevitabilmente intrecciato con le colonie. Questa, dunque, è una mostra che racconta una storia di relazioni: quelle interne all’Africa stessa e le relazioni tra la nostra e la storia dell’Africa».
Manto, dono del degiac Apte Micael a Vittorio Emanuele III, 1936 - “Africa. Le collezioni dimenticate”
Sono oggetti donati, rubati, comprati, bottino di guerra... In mostra ci sono due scudi etiopi, portati in dono a Vittorio Emanuele II nel 1872 da Abba Mikael, un sacerdote della Chiesa monofisita inviato da Menelik per avviare contatti con l’Italia in chiave antibritannica. Un’iniziativa che nel tempo finì per attirare le mire sabaude sul regno di Addis Abeba. «Ma tutto questo esplicita bene la natura degli “oggetti ambasciatori”» spiega Cecilia Pennacini, ordinario di Antropologia culturale dell’Università di Torino: «I leader etiopi cercarono fino all’ultimo, anche attraverso i doni, una via diplomatica contro la crescente politica di aggressione italiana». Ci sono oggetti che testimoniano le atrocità commesse in Etiopia sotto il comando di Badoglio e Graziani, come ad esempio a Debre Libanos. Tra questi, il bastone di comando del ras Mulugueta Yeggazu, ucciso nel 1936 mentre vegliava il corpo del figlio morto in battaglia. Un bottino di guerra, e in quanto tale potrebbe rientrare in una logica di restituzione: «Uno storico dell’università di Addis Abeba, venuto a visitare la mostra, lo ha notato e ha osservato che a suo avviso è giusto che sia qui, come segno di una storia condivisa. Ci sono oggetti che forse sono più utili a noi come “ambasciatori” di una memoria difficile».
Il perché queste collezioni siano rimaste neglette non ha una risposta semplice: «È un problema che riguarda tutte le collezioni extraeuropee a livello nazionale – spiega Pennacini –. Per ragioni storiche l’Italia ha collezioni importanti, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, grazie a una gran numero di viaggiatori e di missionari. È molto più vasto di quanto si pensi ed è poco noto anche a livello internazionale. Se nell’Ottocento i musei antropologici esponevano questi materiali secondo una prospettiva positivista e a volte anche razziologica, in seguito non c’è stato l’interesse né la capacità di valorizzarli». Pagella osserva inoltre che «può avere influito l’estrema articolazione del patrimonio museale italiano, dove non ci sono grandi musei etnografici come invece in capitali “forti” come Berlino, Parigi, ma una serie di musei, anche importanti, sul territorio come a Roma il Pigorini e l’ex Museo coloniale, o a Firenze e a Torino i musei di antropologia legati all’Università. Questa articolazione rende anche difficile costruire delle linee guida che valgano per l’intera nazione».
Fiasca per il latte, Somalia, ante 1923, collezione Musso - “Africa. Le collezioni dimenticate”
Va sottolineata però anche la differenza di rapporto con il passato coloniale rispetto a quanto avvenuto in Europa. Pennacini osserva che «per quel che riguarda l’Africa, il problema della rimozione c’è. La Francia ha fatto un grosso sforzo per rileggere il suo passato, il Belgio lo sta facendo in modo assertivo e così anche Germania e Olanda. Le nostre collezioni sono di origine coloniale: non in modo esclusivo, ma nella gran parte». Un’epoca feroce su cui in Italia si è glissato. «E questo si riflette sulle collezioni e sulla loro presentazione: all’estero è normale, e non solo nei musei etnografici, che didascalie e pannelli esplicitino i legami con il passato coloniale». «L’Armeria Reale è stato a lungo il luogo dove si depositavano le collezioni che arrivano dall’Africa e i cimeli, cioè le memorie dei combattenti» spiega Pagella. «Poi, dopo la guerra, tutto viene sepolto. Ora il tema è come integrare i risultati di questa mostra nel percorso museale. Sicuramente nell’Armeria di Palazzo Reale verranno riallestite le vetrine creando uno spazio apposito per le collezioni africane».
C’è un ulteriore modo con cui questi oggetti diventano ambasciatori: «Da una parte questa ricerca ci ha spinto a una collaborazione internazionale, in particolare con gli istituti africani – dice Pennacini –. Dall’altra sono diventati terreno di scambio con la comunità di origine straniera e gli italiani di seconda e terza generazione». Al termine della mostra un video racconta il contributo da loro dato per identificare tipologia e funzione degli oggetti. «C’è stato grande entusiasmo, perché finalmente vedevano l’Africa raccontata in un museo importante. Tanti sono venuti a far vedere ai loro figli che esiste una storia. È un progetto di integrazione dentro il patrimonio».