venerdì 1 giugno 2012
​La Bassa padana di Guareschi e Zavattini ha perso i segni della sua identità
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Ci stiamo accorgendo di quanto sono preziose le pagine di storia che fino a ieri sfogliavamo quasi con indifferenza, abituati ad averle davanti, ma senza lo stimolo di andare a leggerle, rivisitarle. Pagine polverose, con evidenti i segni lasciati dal tempo, ancora belle perché scritte in epoche che, seppure terribili (e quando mai la storia degli uomini non è stata terribile?), sapevano perlomeno distinguere il bello dal brutto. Adesso che il terremoto ha strappato dal libro della Bassa molte di queste pagine, ci accorgiamo di quanto belle e preziose fossero, e utili, se non altro per riconoscerci. Arrivavo da Modena a Finale Emilia e il primo impatto, una sorta di copertina del suddetto libro, ce l’avevo in Largo Cavallotti, un tempo Bacino della Chiusa, ovvero il porto fluviale. Sino alla fine dell’Ottocento: la chiesa di Nostra Signora della Chiusa, a sinistra la Torre dei Modenesi (quella dell’orologio diventato famoso per aver voluto, prima di crollare, mostrarsi spaccato in due, senza lancette, a palla ferma), a destra, laggiù, il Castello Estense con la torre Marchesana e il Mastio dominante. Scomparsi da molti anni il Bacino della Chiusa e la Chiesa di Nostra Signora (al loro posto: la strada asfaltata con aiuola centrale e una casa d’abitazione con negozio), mi restavano comunque la Torre dei Modenesi e il Castello. Ieri. Oggi guardo un cielo senza torri e campanili, perciò senza storia, senza religione, senza identità. Non un monumento antico di Finale Emilia, di Mirandola e degli altri paesi della Bassa si è salvato dal terremoto che sembra aver mirato proprio alla storia antica, quasi con l’intenzione di cancellarla, ridurci, anche fisicamente, al villaggio globale che già rischiavamo. L’indomani della prima grande scossa, a metà via Trento e Trieste, transennata dalla protezione civile, la troupe di una televisione nazionale ha piazzato una postazione fissa con la telecamera puntata sulla Torre Marchesana del Castello Estense (gioiello degli architetti Bartolino da Novara e Giovanni da Siena), già per metà crollato. I bravi operatori tv, un poco artiglieri e un poco sciacalli al servizio dello spettacolo, aspettavano solo che della Torre Marchesana ne crollasse un altro pezzo. La seconda grossa scossa del terremoto (forse sponsorizzato da qualche rete tv) è arrivata puntuale, di giorno, con la luce giusta, una bella nuvola di mattoni, coppi e polvere, perfino con il sonoro di un sommesso boato e le grida della gente. Ecco, questo della Bassa emiliana è stato il terremoto in diretta, con una attenta regia della natura. Scarso il contributo di attori, generici e comparse. La gente emiliana non fa scene, non piange, non strilla. Si arrabbia se nessuno dà una mano, si offende se qualcuno la pietisce, si arrotola le maniche e comincia a lavorare, con orgoglio e buona volontà (fin troppo presto: ma chi poteva prevedere che invece delle normali piccole scosse di assestamento sarebbe arrivato un secondo terremoto?). Facce asciutte. I pochi che strillavano e piangevano erano marocchini o indiani. Più che giustificati, naturalmente, ma a ciascuno il suo. La televisione ha parlato di Emilia-Romagna. Questa è Emilia (la Romagna è un’altra roba), con un pezzetto dell’Oltrepo lombardo. Precisamente la Bassa. Regione non segnata sulle carte. Geograficamente la sponda destra del Po, giù fin verso le città che furono le piccole splendide capitali del Rinascimento: Ferrara, Mirandola, Correggio, Modena, Carpi, Reggio, Parma. Il terremoto ha colpito soprattutto la Bassa ferrarese e modenese. Ma più che dalla geografia, si capisce la Bassa dalla letteratura: è la terra raccontata da Cesare Zavattini, da Giovannino Guareschi (a proposito, anche la chiesa di Brescello, quella di Don Camillo, è stata danneggiata), da Antonio Delfini. Specialmente campagna, ma anche fabbriche. L’ha descritta bene Delfini: «Da poco era entrato in quella parte della pianura, chiamata la Bassa, la cui vegetazione rigogliosa, coi campi simmetricamente divisi da lunghi filari di alberi vitati, e di tanto in tanto cosparsi di pioppe cipressine, dà l’idea di un’enorme infinita città signorile, mai apparsa e mai distrutta, la cui fondazione venne rimandata migliaia di anni fa a epoca migliore a tempi più felici». Riguardo gli uomini (e le donne) cito il mio L’Osteria della Fola: «In quella contrada sontuosa e terragna che tradizionalmente è detta la Bassa, vive una stirpe di uomini che sa tenere i piedi bene dentro la propria terra e la testa tra le nuvole, magari fino a sfiorare la luna». Gente abituata a farsi rispettare, ad accogliere e aiutare gli altri, con generosità. Che non vuole elemosine, e che non vuole essere dimenticata.
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