martedì 28 gennaio 2014
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Negli ambienti accademici (e non so­lo in quelli economici), quando Pa­pa Francesco parla di economia lo si considera spesso ingenuo o, nei casi più benevoli, lo si classifica come un sudamericano che parla perlopiù in base alla sua esperienza pastorale. Si sta ripetendo ancora una volta l’esperienza di Paolo al­l’areopago di Atene: «Su questo ti ascolteremo un’altra volta». In realtà, le considerazioni economiche della E­vangelii Gaudium , sebbene vengano prima, o dopo, del­la scienza economica e le sue tecnicalità, offrono agli e­conomisti teorici molteplici riflessioni, tutte rilevanti, nes­suna ingenua, molte scomode perché vanno nella dire­zione opposta a quella imboccata dalla teoria e cultura e­conomica. Per iniziare un dialogo serio con l’Esortazione, occorre tenere ben presenti due premesse metodologiche del documento. Da una parte Papa Francesco dice esplici­tamente (n. 51) di inserirsi all’interno della tradizione del magistero sociale dei suoi predecessori (e chiede al let­tore di darlo in qualche modo per scontato); dall’altra sostiene che il suo è uno sguardo primariamente pasto­rale, che nasce dalla sollecitudine e amore per la Chiesa, e quindi dei poveri. Non voleva dunque scrivere un trat­tato di economia – né c’era da aspettarselo – ma chiede a tutti e a ciascuno di prendersi le proprie responsabilità e di cercare di rispondere agli evidenti paradossi che ci circondano. Egli pone l’accento su due imperativi estremamente rile­vanti: no all’esclusione, no all’inequità. «Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è inequità» (n. 53). La riflessione sul tema dello spreco alimentare, fenomeno tipico dei Paesi occidentali, porta ad evidenziare un primo paradosso: a­bitiamo un pianeta dove ogni anno muoiono per cause legate alla malnutrizione oltre 3 milioni di bambini sotto i 5 anni, e nel contempo si sprecano circa 1,6 miliardi di tonnellate di cibo e la quantità di acqua equivalente a tre volte l’acqua contenuta nel lago di Ginevra, come ci indi­ca il rapporto della Fao, Global food losses and food waste. E un sistema economico che spreca ingenti quantità di ci­bo e risorse, ma non sa sfamare chi muore di fame – i bambini soprattutto –, non è un sistema giusto, né un si­stema che porta sviluppo, se il vero sviluppo è sviluppo di ogni persona, di tutta la persona. Sappiamo tutti, non solo gli economisti, che non è affat­to semplice né spesso possibile prendere gli sprechi de­gli opulenti e trasferirli a chi non ha il necessario, poiché i processi che vanno dalle risorse (umane, tecniche, cul­turali, sociali) al cibo sono cruciali, e non facilmente tra­sferibili da un Paese ad un altro: i fallimenti sostanziali degli aiuti allo sviluppo di questi 50 anni ci dicono, so­stanzialmente, tale difficoltà. Ma il riconoscere queste complessità e questa difficoltà deve essere il primo pas­so per immaginare nuove strategie, non il passo finale che chiude ogni discorso (cfr. Alberto Bisin su noisefroma­merika.org). Chi si occupa di economia, e vuole farlo in un’ottica di ser­vizio al bene comune, deve riflettere seriamente e senza pregiudizi su cosa non funziona nei meccanismi econo­mici e su cosa va cambiato. A tal proposito un’operazio­ne rivoluzionaria è stata tentata dalla Caritas in Veritate: in essa Benedetto XVI è uscito fuori dallo sterile dibattito sul fatto che sia necessario un mondo con più o con me­no mercato, e si è interrogato sulla vocazione più profon­da del mercato stesso: esso, «se c’è fiducia reciproca e ge­neralizzata, è l’istituzione economica che permette l’in­contro tra le persone» (n. 35), ribadendo, più avanti, che la logica mercantile va finalizzata al perseguimento del be­ne comune, e ponendo la sfida che tutto ciò si può fare senza rinunciare a produrre valore economico. Senza re­legare, cioè, il perseguimento del bene comune a un set­tore (il terzo) o al non-profit. Un altro paradosso su cui papa Francesco ci vuole far ri­flettere è quello dell’esclusione: «Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ri­dotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due pun­ti in Borsa. Questo è esclusione» (n. 53). È vero che dietro al ribasso di due punti in Borsa possono esserci vite umane, famiglie e disoccupati, ma è preoccupante che gli 'esclu- si' non facciano notizia. La storia ci insegna che il mer­cato ha portato vero sviluppo quando è stato un potente mezzo di inclusione degli esclusi: pensiamo al microcre­dito di Yunus, ma ancora prima ai Monti di Pietà del ’400 nati ad opera dei francescani, e poi alle Casse rurali, alle Casse di risparmio, al credito cooperativo. Esempi, que­sti, di come il mercato e il denaro possano essere a servi­zio del bene comune e creare inclusione: i poveri e i non bancabili ricevono credito e fiducia e diventano soggetti economici e civili attivi. I giovani che nell’800 arrivavano a Torino dalle campa­gne erano gli esclusi del tempo, sfruttati dai padroni e con­siderati solo un disagio sociale dalle amministrazioni. Grazie ad uno strumento di mercato, il contratto di ap- prendistato (inventato dal carisma di Don Bosco), è iniziato un pro­cesso di inclusione e di tutela dei lo­ro diritti. Il mercato è via di sviluppo, come ci ricordano Antonio Genovesi, il beato Giuseppe Toniolo (e molti altri), quando si fonda sulla fede (fiducia) pubblica e sulle virtù civili. Ma quali sono oggi gli esclusi? Tra gli e­sclusi spiccano giovani e donne: mol­ti, sfiduciati, si ritirano perché si sen­tono espulsi dal sistema, e sono più di tre milioni di persone. E che futuro ha un sistema eco­nomico che esclude le forze giovani e le donne? Non c’è futuro se il tasso di giovani che non lavorano (tra disoc­cupati e sfiduciati) è molto alto. Lo sappiamo tutti, ci sof­friamo in molti. Ma cosa dire sulle donne? Se il talento e la creatività sono il motore principale delle innovazioni e dello sviluppo, è certo che ci stiamo privando di un enor­me potenziale che è ancora molto inesplorato. Esperi­menti economici e dati empirici dimostrano infatti che e­sistono differenze significative tra uomini e donne nei comportamenti economici. La propensione al rischio, ad esempio, è in media maggiore negli uomini, mentre la ca­pacità di cooperazione nei gruppi è maggiore nelle don­ne. Nel rispondere agli incentivi individuali e monetari le donne sono meno reattive perché abituate a fare del pro­prio meglio con o senza incentivi. Sono convinta che ci sia uno specifico femminile, legato per esempio alla flessibilità, all’intuizione, alle capacità relazionali, di cui la nostra economia in crisi ha estrema­mente bisogno. Direi dunque che ci stiamo privando dell’«altra metà» dell’economia. Sempre più donne stan­no rinunciando a entrare nel mondo del lavoro, e anche quando ne sono parte attiva persistono dislivelli (soprat­tutto salariali) e discriminazioni: nelle circa 40 aziende i­taliane più grandi e quotate in borsa la percentuale di donne che ricoprono ruoli di presidenti, direttori gene­rali o amministratori delegati è dello 0%, percentuale che sale al 5% per ruoli dirigenziali in generale. E le poche donne che riescono ad avere ruoli di responsabilità lo fan­no omologandosi troppo spesso a un mondo che, per mo­tivi storici e culturali, si è costruito un po’ tutto al maschile. Oggi abbiamo un bisogno estremo di innovazioni. La donna e il suo 'genio' potrebbero aiutare a guardare la realtà con occhi diversi, complementari a quelli maschili. A disegnare istituzioni economiche diverse, a scrivere al­tri libri di economia, a mitigare la guerra nei mercati e a costruire più pace. Ci sono già alcune buone pratiche che stanno cercando di muoversi in questa direzione. Parliamone di più, premiamole con le nostre scelte, chie­diamo alle istituzioni di incoraggiarle. Raccogliamo al­lora l’invito di Papa Francesco, e mentre diciamo no al­l’economia dell’esclusione, diciamo sì a quelle econo­mie che includono, e includendo fanno migliore l’eco­nomia e il mondo. 
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