«Le ansie e le paure, le derisioni e le sconfitte, le contraddizioni e gli ostacoli diventano occasioni di insegnamento, di apprendistato della serenità a caro prezzo». Così Guido Dotti, monaco di Bose, introduce il terzo libro (tradotto in italiano da Qiqajon) di Alexandre Jollien (nella foto a fianco): giovane autore cerebroleso che la stessa comunità piemontese ha fatto conoscere per prima nel nostro Paese. Dopo «Elogio della debolezza» e «Il mestiere di uomo», ecco dunque «Abbandonarsi alla vita» (pp. 98, euro 12), da cui riprendiamo in questa pagina un capitolo. Come sempre per Jollien si tratta di meditazioni dedotte dalla filosofia classica, dalla pratica zen, dai testi evangelici, soprattutto da una «scuola di vita» che – dalla nascita con l’handicap ai 17 anni trascorsi in istituto – gli ha insegnato ad affrontare gli eventi, anche quelli ineluttabili, indirizzandoli in senso positivo. Aderire alla realtà, sì, ma per trasfigurarla.
Il riso può diventare uno strumento di libertà. Mi rincresce che la spiritualità e la filosofia diffidino di lui. È questa per lo meno l’opinione di alcuni autori, che non va generalizzata. Da parte mia, ne ho diffidato molto. Nella mia giovinezza, il riso si presentava in due modalità: la prima erano le risate scatenate dal mio corpo. Ovunque passassi, avevo l’impressione di dovermi nascondere per non suscitare quel riso che mi negava e che ha rischiato, diciamolo chiaramente, di massacrarmi. L’altra modalità era il riso di facciata. Per essere accettato nella scuola ufficiale, ho spesso fatto il pagliaccio per sdrammatizzare, ho giocato la carta di un briciolo di humour per rompere il ghiaccio. Sempre più mi accorgo che lo humour può sgorgare dal profondo, dalla natura di Buddha. Questo riso non cerco di alimentarlo, perché non c’è nulla di più triste e di più spiacevole di qualcuno che cerca di essere buffo. In generale, è tragico. Ma cerco di scherzare, di ridere di me. Di non prendere la vita sul serio. Ridere di se stessi, mai dell’altro. Un amico dice spesso: «Si può ridere di tutto, ma non burlarsi di nessuno». Il riso non è mai contro l’altro. Lavora per la vita. È anche un segno che la vita guadagna terreno. Alla scomparsa di mio padre e durante le sue ultime ore ho constatato che, seppure fragile, una fiducia nella vita persisteva, come una fiamma costantemente minacciata. Ho percepito come nei momenti più tragici dell’esistenza il riso non fosse mai assente, anzi. Certo, non è l’ilarità delle conclusioni di serata attorno a una tavola o addirittura, secondo l’ora, sotto il tavolo... È un riso, meglio, un sorriso, un’adesione alla realtà. Mi sembra che quando si ride, quando si lascia esplodere la propria gioia, l’io si mette a correre e la vita appare senza barriere.C’è un bel testo che mi arricchisce anno dopo anno. Nel suo Diario la Hillesum scrive: «Non ci si dovrebbe mai lasciare paralizzare da una sola cosa, per grave essa sia; la gran corrente della vita deve continuare a scorrere». È il famoso principio di Huineng, espresso al capitolo XVII del Sutra della piattaforma: «La gioia passa in me, così la tristezza. Vanno e vengono. Non si installano». Chiediamoci dunque cosa c’è al centro della nostra vita: i nostri problemi, i nostri complessi, i ruoli sociali? O è l’altro? Qual è il centro della mia vita? Che cosa orienta la mia esistenza? Certo, il riso impedisce di fissarsi. Cominciamo innanzitutto con il ridere di noi stessi: c’è molto lavoro... la noia ha poco o nessuno spazio. Non appena si comincia a ridere di sé, tutto diventa esercizio. Posso ridere perfino della mia ostinazione. Lungi dallo scherno, il riso può diventare uno strumento di vita che sradica ogni ossessione narcisistica e ci aiuta ad avanzare. Ho vissuto un’infanzia molto estranea alle abitudini sociali, e ho perso la mia adolescenza. Anche se non vi si ottiene niente, mi è comunque mancata quella leggerezza. A volte l’ho poi cercata nell’ubriachezza, vi ho cercato il modo di essere disinibito, ma non l’ho mai trovato in fondo a un bicchiere. Se la droga e i piaceri malsani che ci alienano hanno una certa attrattiva su di noi, è perché ci rendono disinibiti. Cominciamo con una pratica molto semplice: non prenderci sul serio.
A volte, quando non sto tanto bene, mi propongo come esercizio spirituale di far ridere la persona che incrocio o il sondaggista che mi telefona per interrogarmi su giornali che non leggo mai. La mia sfida, leggera e gioiosa, consiste nel farli ridere. Ecco una «pratica molto pratica» per decentrarsi da se stessi! Non si tratta di fare lo zoticone, ma di buttarsi nella corrente del riso senza forzare gli accenti né schernire gli altri. A volte, con un amico, giochiamo a sorridere di impiegati un po’ troppo seri a uno sportello pubblico. Anche in questo caso, il riso non è a danno dell’altro. Il riso non è scherno. Non è neanche, come a volte si dice, una presa di distanza dal reale. Ridere non è fuggire la realtà. È immergersi anima e corpo nella piena esistenza.