Paul Ricoeur riteneva che la sua principale fortuna fosse stata quella di essere stato in contatto con le più grandi figure della filosofia del XX secolo e di essersi trovato coinvolto in tutte le questioni fondamentali sollevate dalla fenomenologia, dall’esistenzialismo, dalla psicanalisi, dallo strutturalismo... era un uomo che riconosceva molti “debiti”. La parola gli uscì durante la nostra prima conversazione telefonica, nel 1986, quando gli chiedemmo una intervista sulla sua emozionante trilogia
Tempo e racconto. Il nostro secondo incontro è avvenuto nel 1997, a Chatenay-Malabry, nella sua grande casa, Les Murs blanc, che era stata di Emmanuel Mounier (1905-1950, filosofo e fondatore della rivista “Esprit”).
La sua vita sembra immediatamente porsi sotto il segno della colpa. Ne parla spesso: circa il suo pacifismo prima della guerra, la scoperta dei campi di sterminio, e anche in occasione dell’episodio di Nanterre, nel 1968, quando lei ebbe da gestire le proteste degli studenti. Fatto prigioniero durante la guerra, è stato inviato in un campo di lavoro. Con altri, le fu possibile, tuttavia, creare una biblioteca, organizzando corsi universitari...«Era un campo per ufficiali. E fino al libro di Daniel Goldhagen,
I volenterosi carnefici di Hitler, ero convinto che l’esercito tedesco avesse una etica diversa dal partito nazista. Nei campi che ho conosciuto, tutti i campi per ufficiali, non c’erano gravi violazioni dei trattati dell’Aia o di Ginevra, soltanto delle restrizioni alle uscite perché c’erano state delle evasioni. Ma le nostre condizioni di detenzione erano soddisfacenti, siamo stati nutriti come la popolazione, vale a dire, sempre peggio. Nella nostra camera, eravamo un piccolo gruppo di intellettuali, tra cui due ebrei, uno dei quali era lo scrittore Roger Ikor. Anche Emmanuel Lévinas si salvò la vita perché era prigioniero in un campo di ufficiali».
Cosa pensa del libro di Goldhagen?«In questo libro ci sono fatti interessanti, forse troppo mirati. E una tesi generale che mi sembra un intollerabile atto d’accusa di massa a un intero popolo. Dobbiamo rimanere fedeli alla tradizione occidentale, secondo la quale il diritto penale deve sempre essere individuale. Goldhagen pone quasi il senso di colpa del popolo tedesco nei suoi geni, nella sua cristiana "ereditarietà". L’antisemitismo teologico del cristianesimo è qui gonfiato a spese di ciò che esso doveva ancora avere in termini di resistenza spirituale, intorno a Karl Barth. E ci sono stati atti di eroismo anche in Germania. Le mie informazioni su questo sono duplici. C’è quello che ho vissuto - che è solo un piccolo cantuccio di storia - e la lettura che ho fatto in materia di espulsioni. Ho scoperto la deportazione il giorno del mio rilascio, a Bergen-Belsen, all’uscita del campo: abbiamo visto uscire questi cadaveri viventi. Uno shock terribile».
Di Heidegger, lei dice che aveva il temperamento di un maestro di scuola.«Non mi ha impressionato, è il minimo che posso dire. Ma per lo più l’ho conosciuto attraverso le mie letture».
Per alcuni, la sua opera filosofica è inseparabile dal suo coinvolgimento con i nazisti? Qual è la sua posizione in merito?«Io lego le cose così: la filosofia di Heidegger è così concentrata sulla questione dell’essere, l’ontologia, che i criteri per le scelte morali e politiche sono completamente assenti. Si tratta di una ontologia che è stata incapace di produrre un’etica. E che dunque non ha linea di difesa interna. Heidegger era ormai in una fase di ricostruzione della propria filosofia: la figura dell’eroe vi ha potuto occupare perfettamente una specie di nicchia vuota. Ma è vero che alcuni temi paraeroici erano già in
Essere e tempo... E il suo lavoro ha componenti etiche, non fosse che la decisione di fronte alla morte. Ma questo problema, un problema che mette profondamente faccia a faccia con se stesso, non appena si effettua una trasposizione comunitaria, politica, finisce in una mostruosità. Non è più un faccia a faccia con la propria mortalità, ma la morte di altri è... C’è un difetto di responsabilità indiretta nell’opera di Heidegger».
Heidegger è stato particolarmente criticato per non aver espresso alcun rimorso dopo la guerra.«Sì. C’è stato un atteggiamento da parte sua di fuga e arroganza. Umiliato dai francesi che l’avevano destituito dalla cattedra, non era disposto a fare confessioni. Ma quello che trovo mostruoso è la seconda fonte del suo errore politico: l’idea, che trovo folle, che la tecnologia è un grande progetto umano, che prende il posto della metafisica. In questa prospettiva, lo sterminio degli ebrei è in realtà un dettaglio nel regno della tecnica. Credo che in Heidegger vi sia stato una certa contaminazione da parte di alcune idee di Ernst Jünger. Direi una specie di polemizzazione della vita economica e della vita sociale».
Questa è una questione sulla quale dobbiamo ancora riflettere, in relazione alla situazione politica in Europa oggi. Può chiarire?«I grandi pensatori del XVIII secolo, come Adam Smith e altri, hanno visto nel commercio, nel mondo degli affari, e quindi nel capitalismo, lo sviluppo di quello che chiamavano le "passioni dolci", opposte alle passioni bellicose. Quello che non avevano previsto era che l’impresa genera la guerra economica per mezzo della concorrenza e noi siamo in guerra economica. In modo che vi è, come ho detto, una polemizzazione dell’economico e del sociale, che Jünger ha definito col concetto di mobilitazione generale. Si tratta di una questione molto preoccupante, su cui non avevo mai detto nulla fino a ora».
Quali linee dovremmo seguire per risolvere questi problemi?«Sono un po’ tentato da una soluzione che potrebbe essere definita cinica. Può sorprendere da parte mia, ma fin tanto che il sistema non produrrà effetti intollerabili per un numero molto elevato, continuerà il suo corso, dato che è senza rivali. Quindi aumentare la sofferenza... penso che in Europa occidentale conosceremo una traversata nel deserto estremamente difficile. Perché non siamo più in grado di pagare il prezzo che i più poveri pagano a noi. L’ascesa di giovani economie asiatiche, anche quella della Cina, si fonda su un duro lavoro che noi non siamo in grado di sopportare. Non solo non vogliamo, ma non dobbiamo!».