«Lo scrivere, il raccontare, è per me come il lago per il povero Augusto Mazzetti (poeta dimenticato, ndr): vorrei sciogliermi nelle mie pagine, per essere pescato un giorno, come un antico luccio, cioè come uno dei miei personaggi ideali». Così rispondeva Piero Chiara a "Panorama" su un numero del 1981, nell’intervista “Di mestiere best–seller”.Era ormai il Chiara scrittore affermato, corteggiatissimo dal grande pubblico (<+corsivo>La Spartizione, Il cappotto di Astrakan, La stanza del vescovo, I giovedì della signora Giulia<+tondo>, romanzi da 3 milioni di copie vendute) difeso da Carlo Bo, ma per lo più inviso alla critica ufficiale e alle consorterie intellettuali che non ne apprezzavano – o non ne percepivano, all’epoca – l’irregolarità. A cento anni dalla nascita (il 23 marzo 1913 a Luino, quattro mesi prima dell’amico e concittadino Vittorio Sereni), la “riscoperta” del suo primo libro, una raccolta di poesie, quasi dimenticata, ridisegna i tratti di un Chiara riflessivo, malinconico e profondamente cristiano. È il profilo del giovane esule, dal gennaio del ’44, per sottrarsi al mandato di cattura («atti di ostilità verso il partito fascista»), internato nei campi di Büsserach, Tramelan e Granges–Lens, ricoverato all’ospedale di St.Imier, fino all’approdo salvifico nella casa cattolica di Loverciano. Qui viene eletto al rango di «scrittore» da tre sacerdoti: don Alfredo Leber direttore del "Giornale del Popolo", don Ernesto Pisoni con il quale nel 1946 – a guerra finita – dirigerà la rivista "La Via", ma soprattutto don Felice Menghini, il suo primo editore. A metterlo in contatto con l’altrettanto giovane sacerdote letterato (scrittore, saggista, critico e poeta) era stato il vulcanico Giancarlo Vigorelli con il quale Chiara aveva ideato i “Quaderni di cultura italiana”, stampati dalla tipografia di famiglia di don Menghini, in quel di Poschiavo. La stessa tipografia Menghini, in occasione del centenario di Chiara, ora ristampa la raccolta
Incantavi e altre poesie (con la mirabile cura di Andrea Paganini, prefazione di Mauro Novelli) nell’edizione L’ora d’Oro.La collana ideata da don Felice che, in quei tumultuosi giorni di guerra e d’esilio forzato, intese raccogliere e rendere omaggio agli scrittori italiani internati in Svizzera. «È una timida primavera che sorride attraverso l’aria grigia», annota Menghini su un quaderno il giorno del suo primo incontro, alla stazione di Zug, con Chiara. Uno scambio tra due anime estremamente sensibili, unite da affinità elettiva per la poesia e la letteratura tutta. Apprezzandone forse il timbro montaliano – dei
Mottetti e delle
Occasioni – , il giorno della liberazione, il 25 aprile 1945, dalla tipografia di Poschiavo, uscì il primo libro a firma di Piero Chiara. Il <+corsivo>corpus<+tondo> originario («ora arricchito con 47 ulteriori componimenti e 9 traduzioni, da Baudelaire a Hernández», spiega Paganini) di 26 poesie, veniva presentato in frontespizio come «una nuova voce della moderna poesia italiana offerta in una elegante pubblicazione».Don Menghini, di quel libro ne tirò fino a 500 copie, e al consenso della critica, corrispose anche quello del pubblico: nonostante le frontiere ancora chiuse, ne furono venduti 150 esemplari in un mese. Il critico più convinto era proprio don Felice, il quale ebbe modo di leggere ed apprezzare anche i primi tentativi in prosa che Chiara gli sottopose e sui quali si pronunciò scrivendogli: «Ha uno stile non solo di lingua, ma anche di pensiero, molto originale, di una sensibilità finemente moderna e rara. Si sente insomma la sua voce». Era la voce del futuro “fenomeno da best–seller”, ma che fino in fondo ha rivendicato, invano, la sua “resistenza”, soprattutto alla tradizione. «Nella resistenza vi fu in modo accentuato uno spirito cristiano – e che in essa; scrive Chiara – la supremazia morale del cristianesimo si è affermata ancora». Un periodo di incanto, anche se <+corsivo>Incantavi<+tondo> era il toponimo dei cascinali sopra alla sua Luino. Resta comunque l’incanto di un tempo di formazione che dopo il ritorno in Italia riaffiorerà nelle lettere che invia a don Felice. «La vita è diventata una corsa continua e le serene riflessioni sono ormai un ricordo del mio beato esilio in Svizzera». La nostalgia e il bisogno di confronto, lo condurranno a fargli visita nella canonica di Poschiavo, in cui don Felice gli assegna una camera «gelida e spoglia, destinata ai predicatori della Quaresima». Ma il calore dell’amicizia e lo scambio appassionato di idee, riscalda quell’incontro. «Dopo la cena frugale, leggemmo insieme le poesie che gli avevo portato dall’Italia», ricordava Chiara. I libri di Sereni, De Libero, Gatto e Luzi: le prime apparse dopo la guerra. E anche le opere di Montale e Saba pubblicate a Lugano da Pino Bernasconi nel 1944. «Pareva fosse quello tutto il capitale della nostra vita e poteva essere, in un tempo che ci appariva pieno di speranze». Quella stessa notte, Chiara prima di addormentarsi lesse qualche pagina del “Secretum” il dialogo di Petrarca, scritto nella solitudine di Valchiusa, in cui immagina di discutere con Sant’Agostino.Un libro tra i preferiti di don Felice. «Quel libretto –annota – che è tutto una difesa della vita davanti alla contemplazione della morte…». E la morte del suo amico e scopritore, arrivò prematura, il 10 agosto del 1947, a soli 38 anni. «Durante un’ascensione sul Corno di Campo, don Felice Menghini è rimasto vittima di un incidente mortale», legge per caso Chiara, da un giornale abbandonato sul sedile vuoto di un tram a Lugano. Un’immagine struggente, ma poetica, dono estremo di uomo che gli aveva insegnato che «la poesia non è spenta, non subisce ingiuria, non soffre abbandono. Come l’erba resta viva, sotto le foglie morte dell’inverno e al primo vento di primavera appare e tinge di verde la terra».